In un webinar sulla scrittura e i 5 sensi, abbiamo lanciato una piccola sfida ai partecipanti: per ogni senso abbiamo proposto un esercizio. La partecipazione è stata altissima, tanto che abbiamo deciso di pubblicare i racconti più riusciti.
L’ambulatorio di terapia del dolore dove lavoro si trova in un piccolo padiglione nel giardino dell’Ospedale Villa Sofia di Palermo, unico residuo del fasto e della bellezza della villa in stile liberty che Joseph Whitaker, gentiluomo inglese trasferitosi per affari nell’Isola, battezzò “Villa Sofia” in onore della moglie Sophia Elisa Sanderson.
La villa si trova ai margini della Real Tenuta “La Favorita”, vasto parco cittadino di origine settecentesche con circa quattrocento ettari di ulivi e mandarini; godeva nella prima metà del ’900 di un esteso giardino dove si trovavano vasche e piante esotiche, come le araucarie, le sophore e le washingtoniane, secondo la moda del tempo; era divenuta famosissima per la sua bellezza e i profumi che emanava e venne visitata dai regnanti d’Inghilterra Edoardo e Vittoria nel 1907; nel 1953 fu donata alla Croce Rossa Italiana e subì ampie modificazioni strutturali per consentirne l’uso come ricovero, si legge nella donazione del facoltoso Luigi Biondo, “per i vecchi di ambo i sessi, cronici, incurabili, paralitici, che negli ospedali non li accettano”.
Spesso, quando sono là, cerco di immaginare i colori e i profumi che dovevano esserci, cinquantadue anni prima della mia nascita, ai tempi della visita dei Reali inglesi.
Con certezza molti più di quelli della mia infanzia, quando la nostra collaboratrice domestica profumava di “Zagara Zuma” e sapone molle, mia nonna di ambra e patchouli e mia madre di cipria Arden e “Mitsouko”.
Quando la mamma è morta le abbiamo messo il suo profumo, lei non sarebbe mai uscita senza. E ce lo siamo messi tutti: io, mia moglie Claudia, le nostre collaboratrici Nina e Vera, che una volta avevo scoperto nel bagno di mamma a profumarsi di nascosto, e pure mio fratello Fabrizio.
Se a tutt’oggi sul sito internet della Guerlain si legge che Mitsouko è “emblema di una femminilità decisa che rivela con audacia il suo lato maschile”, perché non si può accettare il contrario?
A Fabrizio stava benissimo.
Ancora poco tempo fa mi è capitato di sentire una scia di Mitsouko, per strada, e di tornare indietro di sessant’anni, quando le note speziate e di vetiver le annusavo nell’androne di casa, se la mamma quel giorno era uscita, e seguivo la traccia fino all’ascensore e poi dentro la vecchia cabina di legno, dove mi
appoggiavo al sedile imbottito di pelle rossa che consegnava al mio tocco fugace, ogni giorno, i pori dei follicoli della vacca che era stata.
Di tutto lo splendore degli inizi del secolo scorso a Villa Sofia non esiste più nulla e una vasta zona del giardino, adesso parco della Favorita, non è neanche più visibile dalla maggior parte delle stanze.
Il parco è attraversato da un viale carrabile che conduce alla vicina località turistica di Mondello, dove ancora si possono ammirare alcune ville in stile Liberty, ma vi si trovano anche vialetti pedonali, che si intersecano in un intreccio non schematico, impossibili da tracciare su una mappa topografica, secondo una leggenda metropolitana, perché la notte si mescolano tra loro come i diavoli della Zisa.
In questi vialetti si incontrano facilmente prostitute nigeriane, tutte in divisa da lavoro sin dal primo mattino, come me nel mio ambulatorio: io cappellino, zoccoletti, tutina, tutto verde e loro chioma bionda, tacchi a spillo e minigonna “prêt à déshabiller”, leopardata.
Una notte mi sono ritrovata alla Favorita con la macchina in panne, ho percorso in fretta un piccolo viale pedonale in terra battuta, in mezzo ai mandarini, ho raggiunto una piazzola e chiamato i soccorsi.
Il novilunio rendeva insicura la mia sosta forzata e cercai conforto puntando le orecchie ai suoni dei mandarini.
Niente, non sentivo niente.
Poi un piccolo fruscio, come di un topo che mastica una foglia, mi diede animo e il mio orecchio si accomodò a sentire i piccoli suoni che vibrano il timpano piano, con bacchette di feltro spesso. Per alcuni minuti il silenzio si colmò leggero e il cuore tornò alla mia bradicardia congenita.
Mi ero acquietata in quei suoni proprio vicino al “Patriarca della Favorita”, ulivo piantato negli anni in cui la Sicilia passava dalla dominazione araba a quella normanna, circa mille anni fa.
Persa, alla vista dell’albero di cui avevo solo letto sul Giornale di Sicilia quando era stato datato dai botanici dell’Università di Palermo, un suono più forte mi fece di nuovo accelerare il battito, e poi un altro e un altro, e si accese una luce forte, e tutta la piazzola era all’improvviso illuminata di viola e i miei timpani vibravano all’impazzata, percossi da suoni che arrivavano in tondo, rimbalzando forse dalla vicina Palazzina Cinese sulla parete del Monte Pellegrino, e la voce di Rosa Balistreri che intonava “Rosa canta e cunta”.
La voce aspra e la chitarra, piansi abbracciata al Patriarca. Acqua salata di cura.
Proprio in quel momento arrivò il carro attrezzi che avevo chiamato per la macchina in panne. L’autista scese scusandosi per il ritardo – la strada è bloccata per lo spettacolo “Un ciuri russu comu lu sangu sparso”. Rosa Balistreri denunciava i femminicidi quando non si chiamavano ancora così.
Sono ritornata ad attraversare il parco sempre di giorno e sempre in compagnia, anche se sono in auto.
La Favorita mi conquista con la sua storia e vorrei tornare ad abbracciare il Patriarca; mi seduce per i suoi profumi di agrumi e olive verdi; mi attrae con i suoi viottoli ombrosi nell’estate torrida di Palermo.
Nel frattempo, mi respinge, come una donna che ha subito violenza perché ci si specchia il peggio di noi; mi ripugna per il rumore fuori luogo delle auto; mi fa stomacare per il lerciume.
Tento di risolvere il disagio con delle scappatoie emotive.
Basta farsi ciechi come un lombrico, sordi come un boxer bianco e anosmici come un protozoo, non provare nemmeno lontanamente a toccare un fiore vellutato o cogliere un mandarino succoso. Che ci vuole.
Io ho trovato il mio modo: ogni giorno che vado al lavoro faccio come se fossi su un elicottero del 118, volo a duemila piedi dal suolo: non vedo non sento non tocco non odoro non gusto.
A volte mi va bene a volte no, come accadde quella mattina del 2022.
Avevo un’inquietudine profonda. Carezzavo distrattamente Rosa-la-gatta quando quella sensazione mi apparve chiara.
Cercavo di capire cosa fosse e perché ne fossi preda, ma non riuscivo a trovare nulla che potessi concretare e che la spiegasse: sembrava da circa tre anni il periodo meno difficoltoso della mia vita.
Mi ero a poco a poco accomodata, pensavo, in una condizione emotiva di benessere e calma, pur nella sequenza frenetica degli impegni quotidiani.
Avevo contratto unione civile con Claudia, io sessantatré anni, lei dieci di meno.
Era stato un incontro fulminante da cui era derivato un amore ormético che mi aveva fatto crescere ogni giorno come persona e come medico.
Ero felicissima, ma quella mattina mi sentivo inquieta.
Avevo mantenuto il mio lavoro nonostante avessi rifiutato il recente obbligo vaccinale, e ciò mi rendeva serena e convinta di aver scelto bene ciò che era utile a me e ai pazienti che curavo.
Ma quella mattina l’ansia era sopraggiunta inattesa.
La mia attività clinica era finalmente un po’ meno stressante, da quando era cambiato il vertice dell’unità operativa e mi ero potuta dedicare solo alla terapia del dolore.
Eppure, quella mattina ero inquieta.
Avevo bevuto poco caffè, avevo mangiato regolarmente alimenti sani, non avevo fatto attività fisica, come sempre.
Il turbamento però era lì.
Forse era sul pavimento, accanto a Rosa che cercava di arrampicarsi sulla mia spalla come tutte le mattine in un momento di intimità che piaceva a entrambe.
Lui era salito prima di lei. Scartai l’ipotesi.
Era probabile che ci fosse qualcosa nell’aria che stavo respirando, come un effluvio di memoria collettiva, di paure ataviche, lontane eppure presenti in ciascuno di noi.
Poteva essere arrivato dal mare, con la salsedine che ogni giorno mi appannava il parabrezza della moto, parcheggiata sotto casa, alla Cala di Palermo.
Con questo convincimento, accesi la mia Suzuki 250 TU e mi avviai in ospedale.
Arrivai in ambulatorio alle 8.45.
la vista
Entra e procede col bastone, si siede pesantemente sulla solida seggiola di metallo davanti alla mia scrivania.
Anche se la vedo solo dalla cintola in su, capisco che si è seduta a cosce aperte: si concede di sedersi come un uomo pensando che la molle e larga gonna a fiori le copra le sue “vergogne”.
La guardo in viso ed è sconvolta dalla fatica fatta per portare il suo grosso corpo traballante dalla sala d’attesa all’ambulatorio.
la vista e l’olfatto
Nell’aria si sparge un odore acre che evoca il ricordo di un pollo morto da giorni, quando perde il rigore dei muscoli e inizia la decomposizione; di aglio di Nubia rancido, quando i liquami maleodoranti colano e si colorano di un viola leggero; di topo stecchito chissà quando, in un angolo solitario della casa, dove si era nascosto per assaporare una bella briciola di wafer alla vaniglia e lo colse la trappola; di formaggio coi vermi bianchi e verdi che si contorcono mezzi dentro e mezzi fuori.
Un puzzo procede dalla parte della stanza davanti a me e si sparge, violento, e mi aggredisce. Mi accerchia da sotto e da sopra la scrivania.
Ho la consapevolezza di non poter scappare, ma che non riuscirò a resistere a lungo. Devo fare presto. Devo sbrigare questa visita nel minor tempo possibile!
la vista, l’olfatto e l’udito
– Signora, cosa la porta qui da noi? Qual è la parte del suo corpo che le fa male?
– Dottoressa mia. Ho dolori dappertutto. Mi sento croccante e fragile, come un biscotto quaresimale.
– Ho capito, ma ci sarà pure una parte che le fa male di più, che negli ultimi mesi o giorni le ha dato più fastidio. Cominciamo da quella.
– Ah, dottoressa mia. Che le devo dire, che non mi posso più mettere neanche le mutande? Con rispetto parlando. Non mi posso piegare. Ho provato anche a tirarle su da terra col manico di un ombrello. Niente, non riesco.
Scambio di occhiate con l’infermiera mentre la paziente continua:
-Tra un mese si sposa mio nipote e io vorrei andare al matrimonio. Ma ci posso andare mai senza le mutande? Me lo dica lei: ci posso andare senza? Mi aiuti a fare qualcosa almeno per questo.
Abbiamo capito tutto. L’aiutiamo a mettersi le mutande.
la vista, l’olfatto, l’udito e il tatto
Deborda dalla barella, ma ancora ci sta, ne ho viste di peggio.
Mi avvicino quasi in apnea, cercando di inspirare con la bocca ed espirare col naso per eludere il flusso mefitico. Con metodo i respiri si susseguono e pare un po’ meno peggio.
La signora si spoglia.
Le gambe le pesano mille chili, così abbandonate nelle mie mani che tentano di muoverle per la visita.
Devo necessariamente inspirare un po’ di più quell’aria marcia che pure contiene ossigeno, per affrontare lo sforzo fisico della visita: le anche, le ginocchia, la schiena. Tocco i tender point, i trigger e i nodi miofasciali a memoria, perché il mio cervello non riesce ad andare oltre la routine.
Più la muovo e più mi accorgo che non basta respirare con la bocca.
Il fetore sale. E i guanti proteggono solo le mani.
la vista, l’olfatto, l’udito, il tatto e il gusto
È enorme e si lamenta ma mi faccio sorda e cieca, mentre la manipolo per visitarla. Questo puzzo mi invade. Il mio corpo – intero – è alla sua mercé.
I vestiti sono insufficienti: le particelle odorose li oltrepassano e sento che penetrano anche i follicoli piliferi.
Il lezzo sbatte sulla faccia, si arrampica a raggiungere il naso, nonostante il maggior flusso d’aria non lo attraversi, e si ancora alle vibrisse. La bocca è esposta e, mentre la apro per inspirare, l’aria carica di particelle organiche che provengono da quella donna entra e si appiccica sull’umidore delle
mie mucose.
Me ne accorgo, serro le labbra troncando il respiro, ma è troppo tardi: le mie papille distinguono chiaramente acido salato aspro, esattamente un attimo prima che il nervo vago provveda a sottrarmi a quello scempio dei sensi.