Harry Potter e l’Ordine della Fenice, J.K. Rowling

In quanto ad applicazione delle regole base della drammaturgia, Rowling non è seconda a nessuno.

Di J.K. Rowling possiamo affermare di tutto e anche di peggio: che, essendo una scrittrice di genere, non approderà mai nell’Olimpo degli autori archetipici; che da buona anglosassone d’impronta calvinista ha seguito un certo percorso tematico solo dopo averne intravisto i tornaconti economici; che nelle sue sortite al di fuori della letteratura ha scontentato tutti, accumulando detrattori perfino sul fronte dell’identità di genere. In quanto ad applicazione delle regole base della drammaturgia, tuttavia, Rowling non è seconda a nessuno, a tal punto che i sette libri che costituiscono la saga originale di Harry Potter possono essere considerati un modello di riferimento per tutti gli scrittori e le scrittrici in erba alla ricerca di una modalità efficace per trasformare le proprie idee in storie.

La Bibbia dello storytelling afferma che una storia, per meritarsi il timbro dell’ufficialità, deve essere organizzata secondo la regola dei tre atti: incidente scatenante, colpo di scena e scioglimento. Rowling non solo applica questo comandamento all’intero arco della saga, ma lo clona su tutti i livelli della gerarchia narrativa, da quello del romanzo a scendere fino alla singola scena, tant’è che, se si osserva l’opera con lo sguardo di un matematico, l’impressione è di trovarsi di fronte a un caso tipico di geometria frattale.

Non solo. Rowling dimostra di eccellere su un altro caposaldo della drammaturgia di fronte al quale molti apprendisti scrittori alzano bandiera bianca, ossia la complessa relazione che lega fra loro “detto”, “non-detto” e “indicibile”.

L’esempio che proponiamo è tratto dal romanzo Harry Potter e l’Ordine della Fenice, quinto capitolo della saga, pubblicato nel 2003. Per la precisione, la scena in cui Dolores Umbridge, neo aggregata al corpo docenti, pronuncia il suo discorso inaugurale di fronte all’assemblea composita di professori e alunni. Il livello del “detto” coincide con il significato letterale del discorso, uno stucchevole panegirico di cui Harry e Ron, protagonisti maschili, non si stancano di sottolineare la pesantezza, senza cogliere il sottile “non-detto” che di lì a poco avranno il dispiacere di sperimentare sulla loro pelle e che invece Hermione, protagonista femminile, non esita a spiattellare loro in faccia: “Il Ministero si sta intromettendo negli affari di Hogwarts”. Sembrano schermaglie fra ragazzi, ma sotto di esse scorre la vena aurifera dell'”indicibile” che, per chi sa leggere fra le righe, equivale a urlare al vento una verità scandalosa: nell’eterna contesa fra maschile e femminile, le femmine sono più sveglie dei maschi!

Sebbene mai dichiarato, il ritornello echeggia da un romanzo all’altro della saga, tutte le volte che Hermione bacchetta – mai termine più adatto – l’incapacità di essere nel mondo dei suoi colleghi maschietti, a tal punto che la magia, più che tema portante dell’opera, assurge a metafora della sensibilità femminile. Sarà forse per questa affermazione “indicibile”, cioè che il genere maschile e quello femminile non potranno mai scendere a compromessi, che la Rowling si è guadagnata l’accusa di transfobia?!

Buona Lettura!

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Mario Abbati

Mario Abbati è nato a Roma nel 1966, laureato in Ingegneria Elettronica e in Filosofia. Come scrittore ha pubblicato saggi, romanzi e raccolte di racconti. Studioso dei Tarocchi, da anni si interessa delle applicazioni di questo strumento alla narrativa. È docente di scrittura creativa presso la scuola di scrittura Genius.

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