Osserva il gregge

Hai mai pensato a quanti personaggi pazzeschi incroci ogni giorno? Livia Sauser, alter ego della nostra tutor Sabrina Silvestri, va in giro nello spazio e nel tempo, alla ricerca di storie nascoste, e se ne riempie le tasche. Avrai a disposizione un’intera collezione di personaggi: non hai più scuse, prendine quanti ne vuoi e continua a scrivere!

 

Ho visto il prof un po’ prima del tempo, un giorno che ero stata divisa in terza liceo. Io ero in quinta ginnasio, l’anno dopo mi sarebbe toccato lui per Storia e Filosofia e già ero terrorizzata, lui aveva la fama di essere tostissimo, e io gli stavo entrando in classe così, una sconosciuta che gli interrompeva una lezione con quelli dell’ultimo anno. “Essere divisi” era quella cosa che succedeva quando si assentava un professore e nessuno poteva guardare un branco di minorenni che volevano solo godersi l’ora di anarchia: la classe veniva temporaneamente smembrata e se ne mandavano due in un’aula, tre in un’altra, un paio al piano di sopra, qualcuno in palestra. Pregavo sempre di finire con compagni che mi stavano simpatici, perché entrare in un’altra classe era sempre attraversare un territorio di frontiera, domandare asilo a sconosciuti nel momento in cui nessun adulto ci voleva. E allora meglio arrivarci avendo vicino qualcuno di classe con cui poter fare comunella, copiare qualche compito, scambiarsi il diario. Però queste divisioni andavano sempre un po’ a caso.

E ovviamente in terza ci ero finita da sola, nessuno nemmeno da mandare in avanscoperta, dovevo proprio bussare io.

– Avanti.

Boh, il tono sembrava tranquillo, potevo aprire. Forse. L’aula era al buio, il prof stava proiettando sul muro con una lavagna luminosa degli appunti scritti a mano. Entrando mi era mancata un attimo l’aria: ero abituata alla puzza che facevo io insieme ai miei compagni di classe, quella cosa che quando andavo in bagno e poi tornavo mi veniva pure da arricciare il naso, ma come lo potevo fare a casa mia, una puzza conosciuta tutto sommato. Ma entrare così, in una macedonia di ormoni sconosciuti annegati sotto strati di vestiti e sbadigli che stavano chiusi dentro da almeno un’ora… però vabbè, l’aria mi mancava anche dalla paura, di dare fastidio, di essere guardata o mangiata da Quelli Più Grandi. Là dentro c’era la rappresentante d’istituto, per dire. Oltre al prof che dall’anno dopo mi avrebbe rovinato la vita.

Ed era stato proprio il prof a tirarmi dentro con una voce dolce, quasi un sussurro, che a me m’era venuto pure il dubbio che stavano dicendo la messa là dentro.

– C’è un posto libero qui davanti, vieni.

Il tempo che mi sedevo di fronte alla cattedra, col mio diario, il libro e il quaderno della lezione di prima per anticiparmi i compiti, che già aveva ripreso il discorso:

– Tutto chiaro finora, ragazzi? Fate tutte le domande, anche quelle che vi sembrano cretine. Nietzsche è complesso, non facciamo che arrivate all’interrogazione per farvi uscire i dubbi. Allora vado avanti un altro po’. Vi volevo leggere questo frammento, poi lo commentiamo insieme:

“Osserva il gregge che pascola davanti a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi: salta intorno, mangia, digerisce, salta di nuovo. È così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e il suo dispiacere, attaccato cioè al piolo dell’attimo e perciò né triste né annoiato… L’uomo chiese una volta all’animale: ‘Perché mi guardi soltanto senza parlarmi della felicità?’ L’animale voleva rispondere e dire: ‘Ciò avviene perché dimentico subito quello che volevo dire’ – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre accanto al passato: per quanto lontano egli vada e per quanto velocemente, la catena lo accompagna”.

Leggeva con lentezza, scandendo ogni parola come se fosse una biglia di vetro da portare a destinazione con cautela, per evitare di romperla. Io ero ipnotizzata, sul diario prendevo appunti di cose che nemmeno capivo. Quando è suonata la campanella stavo ancora scrivendo, scrivevo velocissima le ultime parole che avevo sentito, non volevo perdermi nulla, volevo avere diciott’anni e sapere come si scrive Nietzsche senza dover controllare una continuazione il segno di pennarello proiettato sul muro dalla luce arancione della lavagna luminosa. E alla fine è stato il prof a interrompersi:

– Signorina, credo che devi tornare in classe tua però adesso.

E non lo so se mi sono fatta un film io, però mi sembrava che nel sorriso con cui me ne stava mandando ci fosse una specie di tenerezza e mi piace pensare che fosse un po’ contento che quel morzillo di femmina non se ne voleva andare, voleva sapere, capire, stare ancora là in quell’atmosfera quasi sacra, fuori da tutto quello che sapeva e capiva.

E senza dirglielo, gli ho dato l’arrivederci all’anno dopo. E boh, non vedevo l’ora.

Poi ovviamente l’anno dopo e quelli dopo ancora l’ho anche odiato, a lui, a quelle sue cose che ci dava da studiare con una scrittura che si capiva solo lui, che per un’interrogazione dovevo piangere ogni volta su un blocco di almeno 60 fotocopie, più i miei appunti perché quando spiegava diceva altre cose che non stavano scritte da nessuna parte, più il libro perché metti che poi proprio a me finiva a chiedere una cosa che stava solo là.

E poi la scuola è finita e io mi sono sentita un po’ orfana e per dirgli Arrivederci gli ho fatto un braccialetto dell’amicizia di fili di cotone intrecciati, e lui veramente se l’è messo e poi l’ha tenuto per anni, ha aspettato che si polverizzasse ma non se l’è mai tolto, avevo trent’anni che ancora quando lo incontravo per strada si tirava su la manica della giacca per farmi vedere che al polso teneva quel coso tutto smangiucchiato che non si capiva più di che colore era.

Ma certo che quando ho saputo che stava da solo in una Rsa ho chiamato tutta la classe, e che dovevo fare? Si fa così per le persone a cui vuoi bene, no? Stiamo sparsi per il mondo, molti si sono spostati, qualcuno è arrivato fino in America, ma cinque anni a dividere banchi, penne, ansie e inciuci hanno fatto il loro. Il prof ci ha aiutati, negli anni più difficili in cui non avevamo idea manco per niente di chi eravamo, a non cercare risposte di altri, nemmeno quelle che erano scritte nei libri di scuola ci dovevano bastare, dovevamo farci domande, costruirci un’idea delle cose sentendo più punti di vista, anche litigando. Io non mi trovavo con nessuno quando stavo al liceo, eppure quante volte le interrogazioni le abbiamo preparate in gruppo a casa di chi aveva i genitori fuori dalle palle quel pomeriggio, perché da soli era impossibile. L’ho imparato così che senza gli altri non posso fare niente e che quello che penso io è solo una parte di quello che c’è da capire delle cose, che di quei 60 fogli a volta, fotocopiati sudati odiati e riempiti di altri appunti fino a non capirci veramente più un cazzo, si poteva parlare per giornate sane e dire tutto e il contrario di tutto, che imparare a memoria era una cretinata, e pure farmi un’opinione personale, se non lo facevo in ascolto vero di due-tre teste in crisi quanto la mia. E boh, mi è venuto da pensare che, come siamo sopravvissuti alle interrogazioni più allucinanti, magari adesso potevamo pure trovare il modo di essere vicini alla persona a cui dobbiamo il fatto di riuscire a stare ancora in un mezzo equilibrio mentre il filo su cui camminiamo ci balla sotto i piedi. E non ho sbagliato. Ero la soggettona di classe ma mi hanno ascoltata tutti quando li ho chiamati, abbiamo trovato un momento che andasse bene a 18 persone con vite totalmente diverse per videochiamarci su Zoom, abbiamo organizzato turni per andare a trovare il prof, ci siamo dati come regola di non chiamarlo più prof ma Umberto, fa strano ma pure lui sembra più contento così, anzi vince chi riesce pure a dargli del Tu; a me il Lei ancora scappa, ma vabbè.

La prima cosa che ci ha chiesto è stata di prenderci i suoi libri e tenere conservate tutte le lettere e i bigliettini. Quello pure le mail si era stampato, e i nostri messaggi, gli sms di auguri dal Nokia 3310, tutto. Siamo andati a gruppetti a casa sua, le chiavi le conservava il portiere. Dalle pareti divorate di libri ognuno si è portato qualcosa, ma penso come minimo un centinaio di titoli a testa. Io una sola cosa ho chiesto, volevo Nietzsche. E adesso ogni volta che uno di noi va, gli porta un volume e lo sfoglia con lui, con la sedia vicino alla finestra, nel punto che ha scelto per l’unica pianta che si è portato da casa perché ci arriva più luce. E prima di andare via, chiudiamo un attimo la tapparella e sul muro gli proiettiamo col cellulare delle cose cretine che gli scriviamo a mano, e lui ride e mi sembra sincero.

 

Questo incontro è dedicato a Umberto Gastaldi e agli alunni che dopo tanti anni l’hanno ricordato e hanno deciso insieme di prendersi cura di lui. Per saperne di più: https://www.repubblica.it/cronaca/2023/03/03/news/vicenza_rintracciano_un_ex_professore_malato_e_solo_decidono_di_prendersi_cura_di_lui-390392370/?ref=RHLF-BG-P9-S1-T1

Però è dedicato anche a Giovanna Senatore, a quel tanto delle sue parole che sono diventate parte di me e mi orientano, ancora oggi, ogni volta che mi perdo.

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Sabrina Silvestri

Docente della scuola Genius, ha conseguito un Master in Medical Humanities e uno in Mestieri della scrittura; gioca con le storie e le parole in ogni ambito professionale, da quello editoriale - dopo il Master in Mestieri della scrittura ha continuato a collaborare come consulente per Bompiani, che l'aveva selezionata per il tirocinio formativo - a quello artistico. Lavora come clown socio-sanitario e conduce laboratori teatrali per bambini. Ha pubblicato racconti per le riviste letterarie "Fritz" e "Mosse di seppia".

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