Mi capita spesso di riflettere sulla forza di certi titoli, di romanzi e di narrazioni, di film o di opere teatrali. Alcuni mi sono rimasti davvero in mente fin dai tempi della scuola, tipo: La coscienza di Zeno, Sei personaggi in cerca d’autore, Alla ricerca del tempo perduto, Cent’anni di solitudine, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, Il piacere, I fiori del male. Sono così riusciti, direi proprio azzeccati, che da soli bastano a riempire la mente di un lettore.
La scelta del titolo, oggi spesso guidata dal marketing editoriale, è uno dei passaggi più delicati per un libro.
Ma se volessimo pensare al titolo come a una scelta di parole collegate alla narrazione, alla storia che viene raccontata, al suo significato più profondo, cosa potremmo dire?
In un manuale di qualche anno fa e pure talvolta a lezione ho cercato di comprendere qualcosa di questo segreto del buon narratore utilizzando due racconti di Raymond Carver che raccontano più o meno la stessa storia, con gli stessi protagonisti: un bambino investito, i genitori in ospedale e un pasticcere che telefona a casa per una torta da ritirare, mi faceva riflettere il fatto che le due versioni della vicenda portassero due titoli così differenti, Il bagno e Una cosa piccola ma buona; oggi, però, voglio parlarvi del romanzo I tre moschettieri di Alexandre Dumas. Il romanzo in cui il giovane gentiluomo guascone Charles d’Artagnan va a Parigi perché vuole entrare a far parte del corpo dei moschettieri di Re Luigi XIII, con una lettera di raccomandazione che gli viene subito rubata. E tralasciamo qui il fatto che i moschettieri venivano chiamati così perché avevano adottato un’arma a quel tempo modernissima, il moschetto (così come i carabinieri si chiamarono così per via della carabina), tanto la storia mette in scena soprattutto duelli tra spadaccini.
Qualche giorno fa qualcuno mi ha detto che I tre moschettieri è un titolo sbagliato, perché i moschettieri in realtà sono quattro (d’Artagnan, infatti, a un certo punto del romanzo diventa un moschettiere anche lui). E, come si può vedere anche nella locandina di un famoso film del 1921 che abbiamo usato come illustrazione, sono in effetti quattro spadaccini a incrociare le lame.
Ma un titolo non è un menù. Direi anzi che deve essere coinvolgente e affascinante. E probabilmente il numero tre con la sua forza simbolica è molto più forte e suggestivo del numero quattro. Quindi suona meglio, è più efficace nel risuonare nella mente del lettore.
Quello che ho capito io in questi anni da felice lettore è che un titolo riuscito porta con sé il senso profondo di una storia, quello che potremmo definire il tema.
E allora perché proprio I tre moschettieri? Perché non “Tutti per uno e uno per tutti”, la frase più famosa? Perché non indicare semplicemente il nome del protagonista: d’Artagnan?
Bisognerebbe chiederlo a Dumas.
Comunque, secondo me, il romanzo si chiama così perché I tre moschettieri è proprio il romanzo del provinciale giovane guascone d’Artagnan che va a Parigi per fare per l’appunto il moschettiere e incontra subito quei tre, Athos, Portos e Aramis, che lo sfidano. E i suoi occhi diventano i nostri occhi, noi ci immedesimiamo con lui che vede questi tre abili spadaccini, nella loro elegante divisa.
I tre moschettieri è il romanzo del desiderio di d’Artagnan di diventare come loro, uno di loro.
E quando lo diventa è talmente felice che Dumas scrive:
D’Artagnan trascorse la giornata a passeggiare in tutte le strade del campo per far mostra del suo abito da moschettiere.
Quando poi, nelle ultime pagine del romanzo, Richelieu lo vuole nominare comandante dei moschettieri del re, d’Artagnan pensa subito che Athos, Portos e Aramis ne siano più degni.
Per metterlo alla prova, e anche per non tradire la sua immagine di machiavellico burattinaio, Richelieu lascia la nomina in bianco. Scegliesse lui, d’Artagnan, se mettere il proprio nome o quello di un altro.
“Prendete, signore” disse il Cardinale al giovanotto “vi ho preso un documento e ve ne rendo un altro. In questo manca il nome, lo scriverete voi stesso.” D’Artagnan prese con esitazione il foglio e lo guardò. Era la nomina a tenente dei moschettieri. D’Artagnan cadde ai piedi del cardinale. “Monsignore” disse “la mia vita è vostra, potete disporne come più vi piace, ma questo favore che mi accordate, io non lo merito; ho tre amici che ne sono più degni…” “Siete un bravo ragazzo, d’Artagnan” lo interruppe il Cardinale battendogli familiarmente sulla spalla, lusingato di aver vinto quella natura ribelle “fate ciò che più vi piacerà, di questa nomina. Soltanto, sebbene il nome sia in bianco, ricordate che l’ho dato a voi.”
E allora d’Artagnan va dai tre amici ma loro a uno a uno si rifiutano con delle motivazioni che sembrano scuse, anche un po’ buffe:
“A voi, mio caro Athos, ecco qualche cosa che vi spetta naturalmente.” Athos sorrise del suo dolce e affascinante sorriso. “Amico mio” disse “per Athos è troppo; per il conte de la Fère troppo poco. Conservate questa nomina, essa è vostra. L’avete, ahimè!, acquistata a caro prezzo.” D’Artagnan uscì dalla camera di Athos ed entrò in quella di Porthos. Lo trovò, vestito d’un magnifico abito coperto di ricami, nell’atto di contemplarsi allo specchio. “Ah, ah! siete voi, caro amico!” esclamò Porthos “come vi pare mi stia questo vestito?” “Benissimo” disse d’Artagnan “ma vengo ad offrirvi un abito che vi starà ancora meglio.” “Quale?” domandò Porthos. “Quello di tenente dei moschettieri.” D’Artagnan raccontò a Porthos la sua conversazione col Cardinale e, levando di tasca la sua nomina: “Prendete, mio caro” disse “scrivete su questo foglio il vostro nome, e siate un buon capo per me.” Porthos diede un’occhiata al brevetto, e lo restituì a d’Artagnan, con grande stupore del giovanotto. “Sì, la cosa mi lusingherebbe molto” disse “ma non potrei godere a lungo di questo favore. Durante la nostra spedizione a Béthune, il marito della mia duchessa è morto, cosicché, mio caro, la cassaforte del defunto mi tende le braccia, e io sposo la vedova. Guardate, stavo proprio provando l’abito di nozze; serbate la tenenza per voi, mio caro, tenetela per voi.” E restituì la nomina a d’Artagnan. Il giovanotto entrò da Aramis. Lo trovò inginocchiato davanti ad un crocifisso con la fronte appoggiata al suo libro di preghiere. Gli raccontò il suo colloquio col Cardinale e levò di tasca la nomina per la terza volta. “Voi, nostro amico, nostra luce, nostro protettore invisibile” disse “vorrete, spero, accettare questa nomina, voi l’avete meritata più di chiunque altro per la vostra saggezza e i vostri consigli sempre seguiti con sì felici risultati.” “Ahimè! mio caro amico” rispose Aramis “le nostre ultime avventure mi hanno pur sempre disgustato della vita di uomo d’armi. Questa volta la mia decisione è presa irrevocabilmente; finito l’assedio, entro nei Lazzaristi. Conservate questa nomina, d’Artagnan, il mestiere delle armi vi conviene: voi sarete un bravo e coraggioso capitano.”
E poi arriva una delle pagine più illuminanti del romanzo:
D’Artagnan con l’occhio umido di riconoscenza e scintillante di gioia, tornò da Athos, che trovò seduto ancora al tavolo a guardare il suo ultimo bicchiere di malaga alla luce della lampada. “Ebbene” disse “hanno rifiutato anch’essi!” “Il fatto è che nessuno, caro amico, ne è più degno di voi!” Prese una penna, scrisse sul brevetto il nome di d’Artagnan, e glielo consegnò. “Non avrò dunque più amici!” sospirò il giovanotto. “Ahimè! Sarò solo coi miei amari ricordi…” E lasciò cadere la testa fra le mani, mentre due lacrime gli rigavano le guance. “Voi siete giovane” rispose Athos “e i vostri amari ricordi hanno il tempo di cambiarsi in dolci ricordi.”
E in quella frase “Non avrò dunque più amici!”, Dumas nasconde lo struggimento suo e del lettore per la fine della loro avventura. Diventare uno dei moschettieri a cosa serve? Addirittura, essere nominato loro comandante, che senso ha? Se si perdono i tre amici che hanno accompagnato il lettore in tutta la vicenda, il futuro sarà quello di un comune soldato, un ufficiale come tanti. Il futuro sarà quello segnato dal destino che ritroveremo nella parte successiva della trilogia di Dumas: Vent’anni dopo.
Alexandre Dumas sapeva benissimo che per noi lettori l’immedesimazione principale avviene con d’Artagnan, abbiamo lo stesso sogno impossibile, che forse era anche quello dell’autore: vivere quelle avventure insieme a quei formidabili amici, diventare non solo un moschettiere, ma un moschettiere amico dei tre moschettieri. E così il titolo I tre moschettieri racchiude il significato più profondo del romanzo. Sono presenti loro tre davanti agli occhi del giovane guascone e di noi lettori, sempre loro tre per tutta la storia, all’inizio, quando d’Artagnan incontra i tre che lo sfidano a duello, nello sviluppo con le storie dell’amicizia (e dell’amore e del tradimento) e anche alla fine quando va proprio e solo da quei tre e chiede loro, a uno a uno, di assumere la carica di comandante che spetterebbe a lui.
Sono i tre moschettieri e perderli rende amara la vita.