Amos Edizioni / n° 8 Collana UNICA seconda serie (pg. 120, 12€)
Dal 15 settembre Paolo Del Colle è tornato in libreria con una raccolta, Stato di insolvenza, che desta più di un interesse, nel lettore critico ma ancor più nel lettore e basta, perché lo interroga su una questione di fondo che investe l’umano forse da sempre, ma con un inasprimento recente che ha del kafkiano, dell’assurdo, e dopotutto ritrae una specie di neo-ostracismo cui stentiamo ad abituarci perché forse non lo abbiamo neppure ben messo a fuoco – una condizione che forse richiede nuove teoresi, nuove speculazioni o nuovi metodi d’indagine esistenziali, persino.
per sfuggire alla tua anima
che non ti abbandona
non avrai altra tregua
che questo buio ora
che spengo tutte le luci
camera dopo camera
Alcune letture di questa raccolta indicano il suo valore in un sentimento della fine. Le circostanze della vita rendono inquieto il sentimento della fine. Paolo Del Colle entra con maestria in questo luogo di confine e ci accompagna con versi che toccano la realtà che resta e si nasconde. Con Stato di insolvenza ci dona un libro di poesie che sono attimi in cui la vita si rivela, quando dell’uomo “ogni storia sopravvive / finché può / delle proprie eccezioni”. In realtà, come sempre, la questione ineludibile, la domanda stremata ed esausta, attiene all’esserci, e al dover affrontare tutto ciò che la nostra unica situazione reale comporta – una condizione da cui non si scappa, a cui non ci sogniamo di sottrarci perché del resto non potremmo se non eradicandoci. Come vediamo nei versi sopra riportati, giusto la notte, il sonno, dormire, sognare forse – quasi parafrasando Shakespeare – ci danno tregua (seppure, se non restiamo a vegliare a occhi sbarrati) ma insomma esserci, esistere, andare avanti, scivolando lungo un limite che potrebbe essere la soglia verso una vita piena ma ci sbarra la strada e ci trattiene dentro un destino comune, in un pascolo ordinario, pieno di vivo sentire, in una percezione sensibile estrema, vivere seppure in limine vitae è una faccenda di dispendio esoso di energie in cui il risparmio è voce assente, tutto a vantaggio dello sperpero.
POST SCRIPTUM
Non serve misurare
le forze
delle braccia che cadono
confrontare i giorni
e il loro peso
alla velocità costante
degli anni
più forte di ogni gravità
adesso puoi
lasciarti andare
sul pavimento
e inseguire quale nuova
bellezza si è compiuta
in queste ore
già andate altrove
dal tuo dal suo volto
con il tremore
di un battito di ciglia
che tiene ancora in vita
***********
Stato di insolvenza, come Nuda proprietà, è un titolo di natura economica, e come l’altro indica uno stato di confinamento e di esautorazione. Insinua un fallimento, e un’esclusione. Da cosa? Dalla felicità? O dalla quiete cui ognuno ha diritto, credo, senza assilli, senza avvertire un perenne stato di precarietà?
abbandona ogni idea
questo suono stridulo che sale
sui muri le ringhiere
scuote
le antenne dei tetti
e infine divide l’azzurro
tra un cielo e l’altro
per svanire poi in un lamento
che non trova più ascolto […]
*******
anche io la mattina
mi perdo in congetture
per il tratto che distingue
un momento dall’altro
come fosse qui
in questa strada allagata
che i pensieri siano le cose
l’acqua che entra nelle scarpe
e il brivido del corpo
la fine del girarci intorno
sin quando si fa chiara l’evidenza
di essermi sbagliato
e di me stesso sento la pena
di non avere risposte
come il richiamo
nei voli da un albero all’altro,
sempre più uno qualsiasi,
sempre più in fretta
sino a raggiungere i più lontani
e poi tentare dai davanzali
dalle antenne dai comignoli
[…]
è l’ultima speranza
che consuma la voce
ora già eco di sonore
acrobazie che donavano
al cielo le tonalità
[…]
e le parole che ho appena detto:
è stata inutile la veglia
questo giorno non avrà
nuove preghiere parole o canti
quel che ora penso accadrà
ma già non esiste più
ogni moto o senso
che ha portato sino a qui
all’imitazione di questo tempo
che mai si apprende
*******
Ci sono autori di cui si può dire abbiano una natura duale, non perché siano in perenne confusione su quale partito prendere (se muoversi nella prosa o rintanarsi nella poesia) ma perché, con lodevole agilità e duttile ”bilinguismo” compositivo, “parlano”, o meglio scrivono, entrambi i linguaggi.
Questo può dirsi tranquillamente di Paolo Del Colle.
Nel suo percorso fin qui, prima di questo nuovo capitolo – Stato di insolvenza –, conferma di un traguardo espressivo, Paolo Del Colle ha pubblicato in epoca recente due romanzi di alta densità poetica: Le ragazze dell’EUR (Quiritta, 2001) e Spregamore (Gaffi, 2014), preludi egregi al prosimetro Nuda proprietà (Melville, 2018) – altrettante tappe di una indagine su di sé come exemplum di uomo giovane e meno giovane alle prese col nervo di ogni cosa umana, la relazione col mondo, con l’amore, con gli affetti, col dolore, con la perdita, con il lutto, con la pervasiva, avvelenante infiltrazione di ogni sentire che ammara in una specie di dolente indifferenza, in un esausto cinismo, in un esaurimento smagato, come resa all’ineluttabilità dei lutti e alla forza trascinante della sorte, passando per la mirabile intermediazione di Werner Herzog e del suo Cavallo di Aguirre. Ed è una mia convinzione che questo tassello ultimo molto debba e si ricongiunga ai primi passi di Paolo Del Colle nella poesia, nella parola letteraria.
Ciò che vediamo ora in questo Stato di insolvenza è l’unificazione della parola poetica con l’andamento prosastico della descrizione, della speculazione, e, grossolanamente detto, del “raccontare”, in un tessuto che molla tutti gli ormeggi (la punteggiatura e l’alternanza di maiuscole e minuscole) per veleggiare e beccheggiare assecondando un’onda, che è la bonaccia della parola – beh, questo è un processo di sintesi furiosa e sicura allo stesso tempo che, a parer mio, ripesca, per esempio, la tessitura di Mare o monti (1997, L’obliquo), poema a quattro mani composto con Edoardo Albinati, e riprende dopotutto anche la vocazione dell’origine, esplorata nei primi passi mossi nella rivista Braci e poi aggregati in Gemme apicali (Rotundo, 1988).
Forse è anche facile desumerlo. Chi in fondo, se è vero scrittore, non si riallaccia a tutto ciò che ha attraversato in un viaggio ormai lungo? Chi cioè non tende a un certo punto a costruirsi un inventario di sé [abbiamo già accennato in altri articoli alla fedele “devozione” di Paolo Del Colle di Yaakov Shabtai e il suo romanzo-monstre Inventario (Theoria, 1994; Feltrinelli, 2006)], a ricapitolarsi, e a provare a centrar meglio, dopo un degno numero di tentativi, l’obiettivo perlomeno dell’espressione compiuta e di una più nitida definizione delle proprie tematiche di fondo, cioè della propria poetica?
Ecco dunque che, in questo suo Stato di insolvenza (raccolta edita da Amos Edizioni nella collana UNICA –seconda serie – diretta da Arnaldo Colasanti, fraterno critico), Paolo Del Colle affina lo strumento espressivo volteggiando de plano con destrezza liberata in un flusso ininterrotto con sparute pause o prese di fiato, e medita in un basso continuo costruendo e ricostruendo l’osservazione di tutte le pieghe visibili e invisibili in un disvelamento radicale e in una resa sguarnita di fronte all’avventura travolgente dell’esistere, ora che, col senno di poi, anche la sorpresa si spegne, e cadere come rotolare non è più sconfitta, né fallimento, ma il senso stesso di tutto.
Cade allora opportuna una osservazione forse viziata da un mio personale gusto: in certi passaggi ho sentito o rivisto passi del miglior David Foster Wallace, gli impiegati miserabili e umanissimi di The Pale King come l’oppiomane pentito Don Gately di Infinite Jest con la sua irresistibile attrazione per i pavimenti. Lo dico con lode e ammirazione, e rimandando entrambi, DFW e Paolo Del Colle, alla matrice comune, russa, Anton Čechov – non ho potuto fare a meno di pensare a Lo champagne di Anton Čechov, ultimo libro pubblicato da Sergio Nelli, scrittore e filosofo di Fucecchio scomparso recentemente senza un proprio editore ma edito da molti editori diversi fin dal 1982 fino a quest’anno con quel volumetto – n°7 – che ha aperto proprio la seconda serie della collana UNICA di Amos Edizioni, cui è seguito finora Stato di Insolvenza di Del Colle e La doppia luna di Francesca Ricchi – mentre Del Colle aveva aperto la prima serie col volumetto n°1, Irene, edito da La Nuova Pesa.
La raccolta, per finire, è articolata in tre parti: AL TERMINE, IRENE (che riprende il poemetto già edito ma lo integra di nuovi testi dedicati dal poeta alla cara sorella), NOMI PROPRI.
È illuminante l’esergo, che orienta la ricezione più appropriata del tono e del senso dell’intera raccolta, e trova anche corrispondenza altrettanto significativa nella poesia che troviamo in apertura:
quando mi volsi al suon del nome mio
che di necessità qui si registra
Purg. XXX 62/63
AL TERMINE
cos’hai stasera
mia passata ombra
inquieta e deforme
sei capace d’ogni viltà
che già fu mia
lo so vorresti morire
è quel che penso ancora
adesso ma tra idea e corpo
opaca è la smorfia
della mia parvenza alterata
che torna in sé
e non si agita sbilenca
sui muri le sedie il pavimento
su quanto mi circonda
invano la cerchi
per sfuggire alla tua anima
che non ti abbandona
non avrai altra tregua
che questo buio ora
che spengo tutte le luci
camera dopo camera
e ti sfuggo
sempre più vano
sempre più attraversato
da nuove ombre
che attendono la notte
dove tutto può agitarsi
senza pericolo
e senza speranza
gli occhi spalancati
il solo riflesso della mente
che non giunge altrove
e presa dal sonno
svanisce
in un pensiero
che più di un altro
appare ozioso