GABRIELLA SICA – LA POESIA COME RESPIRO

In questi versi sentiamo vibrare qualcosa di contemporaneo che cerca di non perdere il contatto con l’esistenza autentica

È di uscita recente in libreria la raccolta POESIE D’ARIA (InternoLibri, Collana Interno Versi – II/22) in cui Gabriella Sica ha pubblicato una specie di diario poetico che è anche un lungo respiro in versi. Nella nota finale, Un gesto d’aria, scritta a metà aprile 2018, cioè molto dopo l’epoca di composizione dell’intero libro, la stessa autrice con parole felici situa con precisione questa parte della produzione in versi, e spiega in che modo qui poesia e aria sono in stretta relazione, e come l’aria che circola in questa poesia abbia a che fare col respiro, dunque col soffio vitale. Decaduta “l’aura ci sia almeno concessa [a noi poeti] l’aria”, chiosa Gabriella Sica non senza lieve ironia.

Fuggevole ballata

Quanta aria! E come alita sui vivi

come salva e ripara l’aria ai vivi!

T’ho adagiato sulla carta mio tempo

come un offeso corpo

ora che te ne sei andato via

ma non hai smesso di respirare

soffiare sul vetro opaco

e io la tua immagine toccare

abitare quel che è stato

è parola pietosa dei sopravvivi.

Movimenti di labbra muti e tondi

le ansimanti le sibilanti le rabbiose

pronuncia di misteriose

frasi bisbiglianti senza vocali

le taglienti le molli le appassionate

è l’ignota nenia etrusca dei morti

che si muovono e sorridono storti

è musica disadorna dei sottovivi.

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Un otto marzo nato

Oggi avresti padre mio cento anni

non potresti essere stato che mio padre

tu che eri affettuoso e solare

per la gioia della bambina

al tintinnio festoso delle chiavi,

prepotente mi hai poi insegnato

a fuggire via già grande via da casa

a vivere con i miti di cuore.

Ora ascolto il tuo indistinto respiro

mi accompagni ora che tu sei più dolce

e io più obbediente

sento prossimo il tuo alito la tua aria

la forza di te assente e vivo

di ombra che si riflette sempre in me

di antenato un otto marzo nato.

(8 marzo 2010)

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La prima delle due poesie sopra riportate non ha una sua data ma è compresa tra il gennaio e il marzo del 2010: le poesie raccolte nel bel corposo volume POESIE D’ARIA seguono l’andamento cronologico di una manciata d’anni che va dal gennaio 2007 al Natale 2011. La prima di queste due poesie maneggia proprio lo spinoso compagno delle nostre vite: il tempo, dio incontrastato delle nostre esistenze. La nostra dimensione di gran lunga meno malleabile. La coordinata che più ci ricatta. All’inizio, e per un lungo numero d’anni, dandoci l’assurda convinzione dell’invincibilità e dell’immortalità. Via via mostrandoci le lacune e le amare sorprese annidate nella questionabile esattezza dei nostri più audaci teoremi. E poi spiattellandoci la verità inconfutabile che non solo c’è possibile fine e lento sfinimento ma che ad essi corriamo incontro con più lena di quanta realmente vorremmo metterci. Però nel frattempo quanta aria respiriamo e quanti respiri in modo vegetativo dunque involontario tiriamo e restituiamo: siamo vivi. Sta a noi assegnarci ai “sopravvivi” o ai “sottovivi”. Sta a noi (in buona parte) stabilire se vogliamo offrire “lo spettacolo d’arte varia” di chi si mostra e si arrabatta sopra le righe, o se, come i poeti, lavoriamo a ridurre, a tagliare, a scolpire, a semplificare, e scegliamo di intonare la “musica disadorna”, che richiede la tipica mossa del cavallo dei versificatori, consistente nell’andare a capo: un modo per “tirare il fiato”.

Dopotutto mi pare ci sia una radice leopardiana in questa idea del/la poeta come canna che respira, oltre a sentire e penare, e come organo fonatorio che riveste di voce la luce a cui dà forma sonora e corpo in versi. Perché per chi è poeta le parole non sono gusci vuoti ma sono “gesti d’aria” creatori di “eventi immateriali ma reali, […] flussi colmi di sentimenti” (così tra l’altro Gabriella Sica chiosa nella nota finale in modo calzante).

Ariaiola

Scrivere avrei voluto belle ariette

leggere e briose

per un amore sempre più crescente

come cresce la luna

ma accumulo aria

vango e annaffio aria

dipingo pensieri in aria

non si mostra non ha luogo è infinita

la poesia d’immacolata aria

imbandita tra le nuvole in cielo

dove danzano le ninfe del vento

ho in mente ossigeno sole e luce

per nutrire parole e copri

come una pianta che assorbe la luce

altro non posso che coltivare aria

ariosa per respirare luce luce luce.

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Le figlie

Quante ne ho amate di care figlie

ci parlo le ascolto giochiamo

una consonante qui e là una vocale

le vesto di sillabe e le pettino piano

in noi scorre un fiume profondo e sonoro

è flusso femminile di antenate

ognuna m’è musa madre e memoria

camminano con scarpette di ninfa

le creature floride e sottili

intorno a me le raduno

le figlie di stare con me felici

mi salvano dal tempo che va via.

Sono le mie care poesie bambine

chissà come senza me cresceranno.

Ma qui si spalancano due piste indiavolate come un rollercoaster!

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Da un lato, “la parola ritrovata”, che proprio Gabriella Sica (con Maria Ida Gaeta) fissò in un libro–saggio del 1995 come raccolta delle voci poetiche più recenti per allora, dopo le vicissitudini patite dalla poesia passata attraverso due sbarramenti, il Gruppo ’63 e il Gruppo ’93, e nel bel mezzo, con le riviste Prato Pagano (fondata proprio da Gabriella Sica) e Braci, col tentativo gagliardo di strappare la parola in versi alla dispersione e alla negligenza, registrando voci genuine e sconfortate di revival in nuovi lirismi ed espressioni brancolanti, dolenti oppure ipersemplificate – nell’angelico coro, anche la voce del nostro caro Pietro Pedace, ermeneuta di Amelia Rosselli (a queste peste che hanno a lungo afflitto la nostra poesia alludevo anche nella puntata precedente a questa, dedicata a Beppe Salvia, la settimana scorsa).

Dall’altro lato, un tema caro in special modo proprio a Gabriella Sica: le poesie–bambine, altrettante figlie in versi sguinzagliate nel mondo seppure con tutte le materne cure e attenzioni del caso, che Sica–poeta teme di liberare del tutto alla loro imprevedibile sorte, e per le quali vorrebbe restare il più possibile nei paraggi, maternamente, per scongiurare che si disperdano – è del 1997, dunque di dieci anni prima, la raccolta Poesie bambine, che porta proprio questo titolo esemplare (segno che il tema sta a cuore alla nostra particolarmente).

Di nuovo, direi, questo tema: la possibile dispersione che esige presenza e cura perché non si compia, dunque l’affettuosa e costante sorveglianza.

Beh, ma qui si innestano molti altri fili: anzi da qui essi numerosi si dipartono e moltiplicati tornano!

Un tema personale: aver avuto figli maschi [con uno dei due, in una delle sezioni di questo libro, L’ALTA LETIZIA Fantasia per due voci e un pianoforte, la madre–poeta intesse un dialogo, una sorta di battibecco tra madre e figlio, una conversazione casalinga nel segno della musica e dell’arte, però anche di tipo esistenziale e, dopotutto, quasi generazionale] e aver dovuto rinunciare a una figlia dopo averla tenuta per poco in gestazione.

Tutto questo amore

Non ha protetto i casti bei seni

il felice sgorgare del buon latte

il tepore da madre a figlio

neppure li ha protetti

l’intelletto tattile dell’amore

l’ammirazione trepidante

al seno ai chicchi del melograno

al succo rosso del sangue

non è bastato tutto questo amore

—– * —–

Sarà sventura che sul corpo cade

è il naturale modo

come a una pianta s’innerva il male

arido e fatale

è il ciclo vitale della natura

ecco subdolo si è nel corpo infiltrato

con scorie mescolato

e non con acqua o fuoco o terra

nell’ostile lungo lento sanguinare

il corpo–cuore

ha respiro di foglia al vento scossa.

E poi si innesta qui, pure, il tema della danza in un girotondo solidale con le poetesse lette e tradotte e sentite come sorelle, spesso tirate dentro ai versi, o col nome esplicito o con riferimenti e allusioni: parlo di Elizabeth Bishop e Emily Dickinson, naturalmente, e anche di Amelia Rosselli, in una letizia femminile che coinvolge anche (la a me molto cara) Margherita Guidacci – tutte sorelle animate con grande gioia e strettissimo affetto anche in quel piccolo libro–miracolo che fu qualche anno fa Emily e le altre (The Cooper Files, 2010 – dunque c’è contemporaneità di lavoro e affettuosa sollecitudine tra le poesie qui raccolte, distese appunto tra il 2007 e il 2011, e la cura del resto portata avanti nel tempo sul libro edito da Cooper che raccoglie le femminili voci delle poete–sorelle).

Ma poi c’è una sodalità profonda, qua e là evocata, con i grandi poeti–maestri (Giovanni Giudici, Andrea Zanzotto, Sandro Penna, e molti altri), i quali affiorano tra i versi come cerchia di affetti genuini e intreccio di comune sentire, sono dunque sentiti come affini e vicini con la stessa affezione emotiva che tiene insieme, nella fervida immaginazione poetica della Sica, la Natura e il Mito: le simboliche figure, in cui gli antichi personificavano le nostre qualità umane in sommo ed esemplare grado, e i maestosi alberi–sentinelle che assistono immobili alle nostre vicende come i fiumi i laghi i monti gli animali, tutta una flora e una fauna che ci accompagna e che noi non riconosciamo come compagni di vita, escludendoli dalle città, per non doverli ascoltare, non dover vergognarci di noi stessi, anzi umiliamo, usiamo, senza riguardo, senza ascoltarne i sommessi gemiti.

Canzone di fiume e pioggia

Nel giorno più corto che ci sia

Roma si mostra acquatica e sfinita

dal diluvio silenzioso dei nostri pianti

in cui il mondo annega

noi umani scivoliamo come panni battuti

mentre transitano le ere gonfie di rovine

il tempo convogliato nel tempo

minaccia le arcate di ponte Milvio

le gocce toccano le menti degli uomini

in quest’agonia di vita di luce finita

è il giorno della piena e dell’angustia

è il pensiero che si alza sui pensieri

il vento a folate trascina il fiume al mare

acqua che strangola la vita la sfiata.

C’è un clima esausto eppure c’è e vibra

qui per il lungo viale

ride l’aria ride il cielo benedetto

canta la pioggia canta l’amara terra

suona una fanfara lontana

il Tevere del popolo si è infuriato

biondo dio inascoltato

smarrito nella città distratta

scorre il fiume nel mio petto

mormora tumultuoso tra i muraglioni

in sintonia con il corpo che sa

una folla lo guarda da muretti eponti

c’è voglia più che di catastrofe di gioia

voglia di scendere e riscaldare i cuori vivi.

Ora placata l’ira il traffico scorre calmo

il cielo non piange più e laggiù si sta aprendo

per novanta ore è scesa fitta la pioggia

a Orte rotti gli argini è salito su è salito

(non ritornano alla sorgente i fiumi

come i salmoni o la bambina

quando nel fiume annaspava a ritroso

per scampare dal gorgo risalire

dal viluppo d’alghe tra i rami riaffiorare

prendersi lo schiaffo del padre)

ma il meteo prevede ancora il peggio

in arrivo pioggia e neve il cielo si chiude

e non si esclude un’altra piena

(è il diluvio? il castigo? biblica punizione?)

Di pioggia in pioggia di giorno in giorno

scorrono il fiume e il mio corpo

nel panico che increspa la mente

questo è il paesaggio del nostro dolore, cosa vorremmo?

che la terra non avesse la sua musica il giusto pulsare?

che dall’asfalto spuntassero i bucaneve?

che l’acqua del fiume appassisse in una brocca?

quale quale redenzione immaginare a Roma eterna?

Così con l’aria che comincia a mancare

come nell’altro fiume sotterraneo

respiro ancora seguo la scia

lo sciame d’acqua di vite alla deriva verso la foce

mi lascia la scia

a piedi misuro il ritmo del mio andare e andare.

(13–16 dicembre 2008)

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La Fenice

Appoggio le orecchie ai tronchi del bosco

folto e d’acque chiare:

è faggio cerro o quercia?

Ora è legno resinoso ha il profumo speciale

la perfezione degli anelli–anni

quante le trasformazioni

ora è pavimento di palcoscenico e platea

è stupefacente araba fenice d’oro

dalle ceneri a Venezia rinata

la nuova Fenice ecco risorge dal fuoco.

Ascolto crepitare i rami che il sole abbraccia

ci sta giocando

dopo una notte di guazza

ascolto tra le tavole del teatro le fronde

dita che si sfiorano lievemente

accenni di scale e accordi

un mormorio

le muove il vento che ci cammina sopra

è un’aria musicale

un magnifico magnificat.

Ascolto echeggiare nel bosco i lamenti

e i colpi d’ascia

ora stanno respirando

gli alberi preziosi come polmoni verdi

parlano con le nuvole e gli uccelli

hanno capigliature frondose

muovono i rugosi piedi–radici

alzano i rami–braccia al cielo

(è la ruota che crea

che trasmuta inesausta trasmuta).

Ascolto Dafne che fugge nel bosco

trasformarsi in corteccia

in fibra il petto, in fronde i lunghi capelli

nell’albero che noi siamo

fugge dall’amore (o dal male?)

eccola veloce trasformare cuore e mente

in carta legno fremente

trasumanare eccola in poesia.

(gennaio 2008)

In questa messe di versi che trovo meravigliosi, oltre a sentire vibrare i poeti–filosofi classici, da Aristofane a Lucrezio a Virgilio, e a vedersi animare le figure del mito in una simbologia sempre viva e a suo modo oracolare, sentiamo anche vibrare qualcosa di contemporaneo che cerca di non perdere il contatto non tanto col mondo antico quanto col mondo vero, con l’esistenza autentica. È molto vero e condivisibile questo senso di malattia (in questa raccolta la malattia si affaccia, si manifesta, corre veloce attraverso, come un tradimento, come l’infausto risultato di un voltafaccia fatto alla Natura) che permette di rileggere l’esistenza, intesa proprio come vita comune, alla luce di una diversa condizione che dà senso nuovo ed esclusivo, per chi la avverte e la vive, anche ai gesti e ai sentimenti più ordinari – tutto assume un sapore nuovo e si scava un suo spazio speciale che solo chi vive questo nuovo stato può esperire, e da questa nuova condizione sorge anche uno sguardo nuovo, una percezione diversa di tutto, e di sé nel circostante.

E poi La Fenice è formidabile: ti fa sentire l’albero nel legno. Un riconoscimento non da poco.

Un altro aspetto (che ci permette di ricongiungerci, prima dell’imminente congedo, al discorso delle parole che non sono mai per il poeta gusci vuoti ma sono “attese e perdite”, ci dice Gabriella Sica nella nota finale, “incarnate in un corpo”, cioè tempo che si incarna nei corpi) riguarda due modalità enunciative (mi riferisco a come qui la Sica maneggia e forgia le parole e a come dà un andamento in avanti, lanciato verso un’enunciazione piana, orizzontale, propositiva): l’uso ribattuto o la ripetizione di sostantivi e verbi, dunque di definizioni di oggetti o sostanze e di azioni, e poi le endiadi o meglio i sostantivi duplici tenuti insieme dal trattino, che (forse l’avrete notato) in questo articolo ho subito assunto come modello di creazione di nuovi termini dalla somma di due. Ce n’è una infinità, dell’una e dell’altra modalità enunciativa, e vi invito a farci caso, a scovare i numerosissimi esempi di entrambe.

Chiudo riportando un testo che dice in versi qual è stato il “lavoro compositivo” costante registrato da Gabriella Sica (lei stessa rileggendosi deve averlo notato e in questo breve componimento lo ha pure riconosciuto e definito) come andamento di questa specie di suo diario in versi nel 2007/2011 che è appunto questa raccolta POESIE D’ARIA:

Mi nasce una poesia al giorno

che mi toglie il respiro

certo non so da chi sono istruita

da quale sconosciuta musa

mi viene una febbre un furore

quello che non avrei mai pensato

che si dice capiti ai poeti

certo è un infinito stupore

quando scopro

che ne è nata un’altra

una dopo l’altra

che piano piano esistono poesie

di umane parole

che affabili parlano con tutti

che hanno le mie fattezze piane

oneste come il pane

come me

non riescono a darsi un certo tono.

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