Quando Giacomo mi chiese se volevo andare con lui a Vallelunga a vedere le prove della Ferrari di Formula 1 credevo che mi prendesse in giro.
Era Novembre del 77, Giacomo allora era ufficiale medico nella cittadella-caserma dove vivevano tante famiglie di militari come la mia. Conosceva bene molti di noi ragazzini poiché andavamo spesso all’infermeria della struttura a farci rattoppare i danni derivati dalle nostre cruente attività ludiche, tanto da vederci di sicuro più lui che il parroco. Durante uno dei tanti bagni di tintura di iodio a cui regolarmente mi sottoponevo, chiacchierando avevamo scoperto di avere una passione in comune: la Formula 1. Lui ovviamente era un patito di vecchia data, io invece lo ero da solo un anno, cioè da quando Niki Lauda, pilota della Ferrari e campione del mondo in carica, nel 1976 ebbe il terribile incidente del Nurburgring, con tanto di rogo, che gli costò il secondo titolo consecutivo e per poco non gli costò anche la vita. Un anno dopo, Lauda, grazie alla sua regolarità in gara unita alla affidabilità della sua Ferrari 312 T2, aveva finalmente bissato il titolo del 75 in una stagione trionfale per il cavallino rampante, che però si era conclusa in maniera velenosa con la fuga del pilota austriaco verso lidi più remunerativi. L’addio era già stato ufficializzato addirittura prima del Gran Premio di Italia, dando alla festa per il titolo mondiale, conquistato matematicamente proprio a Monza, uno strano mix di gioia, rimpianti, e anche rabbia tra i tifosi più integralisti del cavallino. Superato lo shock della sbattuta di porta di Lauda, tra gli addetti ai lavori e i tifosi cominciò a montare la curiosità per quello che avrebbe dovuto essere il suo successore al volante. Vennero accostati alla rossa grandi nomi dell’epoca come Emerson Fittipaldi, Mario Andretti, Jody Scheckter e Ronnie Peterson, ma quando le puntate ormai convergevano tutte su Peterson, che dal suo canto non nascondeva il suo alto gradimento per la Ferrari, ecco che dalla roulette di Maranello saltò fuori a sorpresa il nome del giovane canadese Gilles Villeneuve, con grande e malcelata delusione del campione svedese che aveva già pronti bagagli e biglietto per l’Italia. La decisione di Enzo Ferrari di ingaggiare un pilota pressoché sconosciuto fece storcere il naso agli addetti ai lavori, molti la presero come una mossa avventata spinta dalla rabbia per la provocazione di Niki Lauda che andandosene aveva avuto la presunzione di attribuirsi tutti i meriti delle sue vittorie sparando la famosa frase: “Vedremo dove sarò io tra due anni e dove sarà la Ferrari…” (consultate gli annali per vedere come andò…), insomma una sfida per dimostrare che era la Ferrari a costruire i piloti vincenti e non viceversa. Ferrari addirittura aveva appiedato Lauda, fresco campione del mondo, nelle ultime due gare dell’anno, facendo debuttare il canadese nel Gran Premio di casa a Mosport, vendicandosi in qualche modo degli sgarbi dell’austriaco. Da quel momento l’Italia automobilistica si spaccò in due tra i sempre fedeli alla rossa e un nuovo movimento, i Laudisti, inspiegabilmente devoti all’ingrato campione, nonostante avesse avuto parole poco lusinghiere sul Belpaese e tutto quanto lo riguardava. Dal fatto che il giorno dopo l’esordio di Villeneuve io avessi già sostituito numero e nome con i suoi sul modellino della Ferrari di Lauda che mi avevano regalato il Natale precedente, potete immaginare da che parte stavo.
Intanto il mondiale era finito e per la verità Villeneuve nelle due gare disputate era salito alla ribalta non per le prestazioni ma per uno spettacolare incidente nel Gran Premio del Giappone dove, dopo una collisione con la Tyrrell di Peterson in un tentativo di sorpasso, la sua Ferrari era volata fuori pista e aveva investito degli spettatori imprudentemente assiepati in un punto proibito, causando due morti.
La tragedia impressionò molto e la critica partì in quarta, alcuni esagitati etichettarono il canadese come uno scriteriato invocandone già il licenziamento, mentre altri, più pacatamente, rimarcarono che le cause dell’incidente forse non erano da addebitare tutte al canadese ma anche a un “inconscio” desiderio di Peterson di togliersi un sassolino dalla scarpa ostacolando in pista il pilota che gli aveva soffiato il posto in Ferrari. L’assenza di immagini chiarificatrici lasciò aperto il dibattito per settimane, ma ormai le chiacchiere erano inutili, Gilles Villeneuve era il nuovo pilota della Ferrari e avrebbe affiancato Carlos Reutemann nel Campionato del Mondo di formula 1 del 1978, e io in quel momento ero solo eccitato perché lo avrei visto dal vero.
Incassato dai genitori il permesso alla gita grazie al solito rituale comprendente genuflessione, giunta di mani, capo chino, promessa di essere più buono, obbediente, nonché studioso nel futuro prossimo, preparai l’esiguo bagaglio: una vecchia macchinetta fotografica, regalata da un parente a mia sorella per la sua cresima, con ancora ben nove foto nel rullino, + un bloc notes, + una penna, nella speranza ci fosse opportunità di dare l’assalto a un autografo. A fargli compagnia nella mia tracolla c‘erano solo un paio di panini preparati da mammà, la partenza era infatti fissata non appena uscito da scuola quindi non ci sarebbe stato tempo per il pranzo, ma francamente in quel momento il mangiare era l’ultimo dei miei pensieri.
Il circuito di Vallelunga distava solo un’oretta di macchina ma il viaggio non finiva mai, ero ansioso di arrivare, anche perché le giornate erano corte e andavo a vedere girare per la prima volta una Formula 1 dal vero, volevo saziarmi, mica mi accontentavo di un assaggio. Mentre si viaggiava si discuteva di attualità, a Vallelunga, solo pochi giorni prima, aveva girato Niki Lauda con la sua nuova squadra, la Brabham, quindi queste non erano semplici prove private, era già un sentito duello cronometrico a distanza. La Ferrari infatti alla fine di quella stagione aveva cambiato il fornitore di gomme, lasciando la Good Year per la Michelin, una mossa azzardata visto che la casa francese era appena rientrata in Formula 1 e assieme alla Ferrari forniva solo la Renault, quindi il confronto con Lauda era già una indicazione importante. Da programma, quel giorno ci sarebbe stato solo Villeneuve, il giorno dopo sarebbe arrivato anche Carlos Reutemann per dare l’assalto a pieno organico al fresco record della pista segnato da Lauda nelle sue prove. Giacomo però aveva preferito andare quel giorno perché l’indomani era previsto un grande pubblico e diceva che non saremmo stati bene, io da goloso avrei preferito abbuffarmi con doppia razione di Ferrari, ma non pareva il caso di lamentarsi. Avvicinandoci al circuito si sentiva sempre più distinto il suono del 12 cilindri boxer Ferrari, la macchina di Giacomo ormai mi stringeva, non vedevo l’ora di schizzarne fuori. Finalmente dopo aver parcheggiato raggiungemmo di gran passo il circuito e salimmo sulla terrazza dei box dalla quale, spostandosi da una parte all’altra, si dominava sia il rettilineo di arrivo che tutto il tratto più lento del circuito che vi ci portava. Solo due curvoni del tratto più veloce erano lontani e nascosti alla vista. Ricordo l’attesa da quando vedevamo i tubi di scarico della Ferrari scomparire a quando ne vedevamo riapparire la sagoma rossa: sembrava sempre un’eternità. Poi, dopo un paio di soste di Gilles per dare indicazioni ai tecnici, notammo che ai box c’era un po’ troppa gente per essere tutti addetti ai lavori, così provammo a scendere.
Non ci potevo credere, si poteva girare liberamente per il box manco fosse un giardino pubblico, Giacomo aveva ragione, con pochi spettatori tutto era permesso, il giorno dopo, con le migliaia di persone previste, di sicuro i box sarebbero stati off-limits. Ero euforico come un bimbo alle giostre, quando la Ferrari girava in pista salivo a seguirla sulla terrazza, appena si fermava scendevo e partecipavo alla chiacchierata tra il pilota e il suo ingegnere.
Tra un saliscendi e un altro mi soffermavo anche a curiosare dentro i box, ricordo che la cosa che mi impressionò di più furono i pneumatici, quando mi trovai di fronte un paio di posteriori sfilate dai cerchioni mi resi conto che avrei potuto dormirci dentro.
Ormai mi muovevo per il box come fosse casa mia, ricordandomi ogni tanto di consumare i pochi scatti di rullino che avevo. Ero così fuori dal mondo che manco ci pensavo.
Ma il bel gioco dura poco, purtroppo, soprattutto se è novembre e il sole cala presto, quella che stavo seguendo infatti era l’ultima uscita di Gilles, così mi misi al muretto per farmi un pieno di decibel del motore Ferrari, me ne volevo ubriacare prima che la festa finisse.
Poi Gilles si fermò, spense il motore per l’ultima volta, scese dalla macchina e sparì nei box scortato dai tecnici mentre i meccanici mettevano la 312 T2 nel garage: era come vedere il Luna Park chiudere. Avrei voluto nascondermi nei box sperando che Giacomo e compagnia andandosene si scordassero di me, ma se ero potuto venire fino a lì era anche per le rassicurazioni che lui aveva fatto ai miei, quindi mi dovevo rassegnare. Ormai aspettavo l’ordine di ritirata mentre l’euforia si sgonfiava, quando dopo un po’ la tromba ancora non era squillata chiesi al mio tutore che cosa aspettassimo. Lui mi guardò strano e mi chiese con tono sorpreso: “Ma come… non vuoi farti fare l’autografo?!” Non so cosa prova un palloncino nell’attimo in cui si gonfia di elio ma credo fosse una sensazione simile a quella che provai io in quel momento. Quando Gilles uscì firmò pazientemente gli autografi a tutti e anche io naturalmente ottenni il trofeo.
Gilles poi si avviò accompagnato dall’Ingegner Nosetto fuori dai box, io e altre 3-4 persone ci accodammo, quando raggiunsero una Fiat 131 Mirafiori si appoggiarono a parlare, non capivo di cosa, allora il francese non lo sapevo, ma ero lì, con loro, come se fossimo compagni di scuola che chiacchierano all’uscita, fino a che il pilota salì in macchina, mise in moto e partì salutando tutti con la mano.
Forse fu quella figura così minuta con quella faccia da ragazzino, forse fu la gentilezza nel firmare gli autografi e la semplicità con cui si soffermava a chiacchierare con i tifosi, tutte cose che contrastavano con l’idea di rudezza che poteva dare un pilota di macchine da corsa, o forse furono gli effetti dei decibel del motore Ferrari, non lo so, fatto sta che ricordo con nitidezza che fu quello il momento in cui sentii che quella sarebbe stata una passione. Sì, una passione a prima vista, e capii che da quel giorno sarei stato il suo più grande tifoso.
Il primo anno da tifoso di Gilles fu una dura prova di fedeltà, scarsi risultati si alternavano con frequenti incidenti. Nel Gran Premio del Brasile, dominato dal compagno di squadra Reutemann, un’altra collisione con Ronnie Peterson (una coincidenza?) fece concludere la sua rimonta con una uscita di pista. Nel Gran Premio degli Stati Uniti Ovest, sul circuito cittadino di Long Beach, mentre era in testa Gilles volò sulle ruote di Clay Regazzoni che doppiato non gli diede strada, regalando la vittoria ancora a Reutemann. Tutti incidenti di cui probabilmente non aveva colpa, ma pane per quei critici che ancora non avevano digerito che sulla leggendaria rossa si sedesse un ex campione di motoslitte e non un pilota dal nome altisonante. Il volo di Long Beach valse poi a Villeneuve il soprannome di “aviatore”, che a me urticava particolarmente. Un altro incidente spettacolare nel Gran Premio di Montecarlo inasprì ancora di più i suoi detrattori, poco importava per certi fessi che fosse stato causato dallo scoppio di un pneumatico a 300 all’ora nel tunnel del circuito monegasco. Intanto però cominciavo a soffrire, gli amici mi prendevano in giro per quella mia “insana” passione, ma io sono strano, e più davano addosso a Gilles e più mi accanivo nel difenderlo, anche se ormai la sua avventura in Ferrari sembrava avere i giorni contati.
Con l’andare del campionato però le cose migliorarono, nonostante la Ferrari non fosse molto competitiva anche a causa all’incostanza delle gomme Michelin, Gilles fece alcune belle gare, come il Gran Premio del Belgio, dove dopo aver perso tantissimo tempo per rientrare ai box per il cambio di una gomma forata, rimontò fino al 4° posto, e in Austria, dove, in un Gran Premio reso impossibile dalla pioggia, ottenne il suo primo podio dimostrandosi uno tosto in condizioni estreme. Così, quando si arrivò al gran Premio di Monza, dopo l’ormai risaputo ingaggio del sudafricano Jody Scheckter, Enzo Ferrari sorprese tutti annunciando anche la conferma del canadese invece di quella data per scontata di Reutemann, che non ci rimase molto bene.
La critica si sbizzarrì ancora, ma mai scelta si sarebbe rivelata più felice nella storia della Formula 1. Gilles poi nel week end onorò la conferma partendo in prima fila e duellando in gara con la Lotus 79 di Mario Andretti, che aveva dominato la stagione, arrivando secondo nella sua scia, posizioni che però i piloti persero per una penalizzazione inflitta loro per aver leggermente anticipato la partenza. Per la cronaca la vittoria andò all’odiato Lauda, ma quel Gran Premio sarà più tristemente ricordato per la morte di Ronnie Peterson, avvenuta in seguito alle ferite in un terribile incidente alla prima partenza. Comunque Monza per Gilles fu uno spartiacque, adesso sembrava un pilota in grado di vincere un Gran Premio e, dopo la rottura del motore che gli negò la possibilità di contendere la vittoria al compagno Reutemann nel Gran Premio degli Stati Uniti Est a Watkins Glen, si arrivò all’ultimo Gran Premio, proprio in Canada, sul nuovo circuito di Montreal.
Non ho immagini impresse di quella gara, come il precedente Gran Premio statunitense la RAI aveva deciso di non programmarlo, così mi ricordo che attendevo impaziente notizie durante la Domenica Sportiva, dato che per il fuso orario da noi era tarda sera. Ero davanti alla tivvù con mio padre e l’ultimo aggiornamento aveva dato Gilles secondo, dietro Jean-Pierre Jarier, che aveva sostituito il povero Peterson sulla Lotus per le ultime gare. Mi misi il cuore in pace, la macchina inglese quell’anno era inarrivabile, perdeva solo se aveva guasti meccanici, e il secondo posto era un buon finale di stagione per Gilles. E poi ero anche contento per Jarier, un grande pilota che non aveva mai vinto un Gran Premio, sia perché non aveva mai guidato grandi macchine, sia perché le volte che ne era stato in grado aveva sempre avuto guai meccanici, insomma un campione sfortunato, di quelli che vanno incontro alla mia simpatia. Comunque aspettavo nervosamente la conferma del piazzamento quando finalmente il presentatore annunciò molto sobriamente che Gilles Villeneuve su Ferrari aveva vinto il Gran Premio del Canada. Mio padre, esclamando un Ooooooh di felicitazioni per me, fece appena in tempo a darmi una pacchetta sulla spalla mentre mi alzavo di scatto dal divano. Trattenendo il fiato camminai veloce verso camera mia per nascondermi, la raggiunsi appena un attimo prima di scoppiare in lacrime. Provai una gioia indescrivibile, delle sfortune di Jarier mi sarei dispiaciuto un’altra volta.
Non so quanti fummo a piangere di gioia quella sera, di sicuro un numero infinitesimale in confronto a quanti l’8 maggio 1982 piansero di dolore alla sua morte, perché Gilles nel frattempo, grazie alle sue funamboliche imprese, era diventato il pilota più amato di sempre. Con la sua figura di ragazzo qualunque, che dentro l’abitacolo di una Formula 1 si trasformava in un essere soprannaturale, aveva appassionato un pubblico eterogeneo che mai prima si era accostato all’automobilismo. Gilles era diventato il fratello maggiore di bimbi e ragazzi, figlio e nipote di uomini e donne di tutte le età. Anche mia madre pianse per la sua morte. Chi non ha vissuto Gilles forse non capirà ma ci può provare, questo 8 Maggio, quarantennale della scomparsa, sono in uscita nuovi documentari e pubblicazioni su di lui che si andranno ad aggiungere all’infinità di documentari, pubblicazioni e tributi video sul web che, da quel maledetto sabato a Zolder, incessantemente lo commemorano. Chiunque desidera può trovare la sua storia. Io ho avuto la fortuna di viverla di persona e di provare emozioni che dubito potrò riprovare. Ho voluto raccontare il primo anno di Gilles, quando per molti era solo “l’aviatore”, sperando si capisca che chi lo amava già allora ha gioito delle sue imprese più degli altri e ha sofferto della sua morte in maniera che altri non possono immaginare. Dopo tutti questi anni sento ancora un grande vuoto per quell’eroe volato via troppo presto, la mia casa è ancora piena di oggetti, modellini, libri e foto con autografi, che ricordano vari momenti del mio Gilles, ma fra tutti, quello che mi evoca il ricordo più dolce, è quell’album di poche foto, sfocate e sbiadite, scattate quel pomeriggio di novembre a Vallelunga.