Su Si dissolva l’opaco di Roberto Masi, Ensemble (Marzo 2022 / pagine 76, 12€)
Ponti Protoplasmatici
Sull’oscillante tralucere del tempo,
cresce un calore senza dottrina
là, dove il bosco si muove lento…
ma mi raggiunge un vuoto – nel corpo
che si disperde – oltre la radura.
Eppure, è ancora giorno − ed è notte;
battono i passi d’un poveruomo
ed io − chiuso dalla parallasse seguo –
un’aria: rossa di piume brinate
che mi racconti di giorni passati.
E sul cammino che si dispiega,
il ricordo rovina e mi assale –
ma se mi chiedi di sentirlo, amico:
usa i tuoi sensi e accogli segreto
il saturniano culto del risveglio.
Dolce spira − dalle finestre un’aria –
mugghia, come un mostro (come un dio)
e recluso all’atroce dolore,
unico (io navigo) così; convesso
al tocco avido delle tue carni.
In origine la raccolta di cui ci occupiamo oggi aveva questo titolo, Ponti Protoplasmatici: un titolo impervio, para-tecnico, di impianto biologico. Con perfetta trasposizione metaforica e non vago intento allegorico, l’autore, Roberto Masi, ci presenta in video la condizione umana, ulteriore ed estrema, partendo da sé stesso, corpuscolo in transito, compenetrato tra moto esterno e incrocio con i simili in un ambiente oramai compromesso dai veleni invisibili, e garbugli interiori. L’allusione, indovinabile, è al pianeta pandemico, ma il richiamo alle nostre recenti cronache cliniche non è restrittivo: situa questa ennesima caduta dell’Uomo in un quadro di perenne sperimentazione, in cui noi umani siamo contemporaneamente innocenti e giocosi e tracotanti e inconsapevoli – non per scarsi mezzi al conoscere ma per attitudine a ignorare sapendo: una visione, o meglio una fotografia, del nostro destino, della nostra sfida, della nostra temerarietà, della nostra audace fortuna, in cui senza giudizio abbiamo convertito la virtù e la misura in abilità tecnica a oltranza.
Si dissolva l’opaco
Piove sconcerto sopra questa terra, e
scivola scura l’acqua nei solchi
di questa valle chiusa dove soffia
un vento denso nel burro d’umido.
Grigia luce che accogli la veglia,
che mi racconti di giorni passati
e mi chiami alla morte: piegami
sugli anni abbandonati e ritorna!
Quel tempo incantato è concluso:
si dissolva l’opaco e la memoria
tagli e consumi la quiete come una
ruggine (come) – tempesta senza fine.
In sede di pubblicazione, il titolo finale della raccolta è stato affidato a questo imperativo, Si dissolva l’opaco, che è un auspicio. L’imperativo implica impegno, presa in carico di un’azione generativa che ci devii dall’autodistruzione. C’è della costruttività in entrambi i casi. Da un lato la costruzione di ponti, dall’altro l’azzeramento dell’opaco. Tra questi due termini si muove la poesia di Roberto Masi da Calenzano, che già avevamo conosciuto forse anche da questa rubrica con il suo libro precedente, Eccitare l’abisso (Homo Scrivens, 2020), connotato da una prosa di ardita mescidazione tra narrazione e speculazione filosofica, in cui l’esperienza fondante era l’apnea come esperimento estremo di sondaggio di sé e della nostra condizione comune.
Questo libro, Si dissolva l’opaco (Ensemble – Alter Poesia, 2022), è un prosimetro: alterna passaggi in versi a brani in prosa, e la “tecnica” del raffronto fra queste due modalità riprende l’andamento classico di questo genere ibrido, lo stesso dopotutto che rileviamo nella Vita Nova, cioè versi e prose che si corrispondono e si parlano, illuminandosi reciprocamente.
Vertigine
Dal graffio che corrode i tendini
osservo qua e là gli oliveti
mentre resina odorosa gronda
dalla sponda smeraldina del pozzo.
Il ricordo rovina e mi assale –
di colpo svanisce ogni assillo e
come un inganno di ninfe fuggo,
per far ritorno al tempo bambino.
Ritrovo così la forma bestiale
tra la mia – e la tua cara presenza –
oltre il vuoto inosservabile
della vertigine che ci unisce.
[Segue prosa – le prose sono tutte in corsivo, a sottolineare il ruolo di non innocuo contrappunto]
Oltre il cimitero la salita allunga a mezzacosta, stretta tra il declivio di terrazzamenti costellati d’olivi e le case diroccate – lì, tra gli orti dei pensionati e il disordine, una vecchia cisterna conserva ancora i nostri ricordi.
Tutto è mosso dal vento e l’inquietudine, di colpo, svanisce. L’aria tiepida mi strappa la pelle dal volto e mentre il sangue percola sulla vista che si scioglie, m’incanto ad ammirare le api far la spola dalle arnie fino alla sponda smeraldina dell’antico manufatto, mentre i rovi si accostano nel disperato tentativo di ricongiungersi.
Il bosco si muove lento, e mi assale il ricordo di quel muro insormontabile che riporta il soffio d’angoscia di quando immerso nel buio della sera, acceleravo il passo per sfuggire da chissà quale obbrobrio.
Sulla destra si staglia la Piana, ma tutto appare distorto da una prospettiva senza riferimento: una carta geografica nella quale ogni cosa potrebbe dirsi frutto dell’immagina-zione, se non fosse per il fremito costante dell’aria che rende il cammino così reale da condurre lo spirito all’inquietudine della vertigine. Lo stesso stordimento che co-stringeva la mamma a chiamarmi quando doveva appendere le tende, che le impediva di salire sulla sedia mentre impavido nella giovinezza ma costretto a mia volta da quel senso d’inadeguatezza motoria, reprimevo per orgoglio il suo stesso disagio.
In questo errare senza meta coltivo la mia presenza indissolubile; ma chi ero? E chi sono ancora oggi che tutto ha assunto la sua forma bestiale?
Attraverso la mulattiera torno sulla via che collega la mia terra alla parte preappenninica della Toscana. Il dolore rappresenta un pulviscolo all’orizzonte che sfuma fino al Santuario di Montesenario dove il nostro legame ne risorge ogni volta riconosciuto, libero da quell’orrore che in pochi attimi avrebbe dispiegato le proprie ali sopra di noi.
Faccio una microscopica osservazione “dentro” i due testi.
In Vertigine nella prima quartina sottolineerei le sonorità che, tra le vibranti con aggiunta di gutturali e le dentali sparse, costruiscono una corrispondenza di natura esistenziale tra gli elementi del paesaggio e la figura umana che vi si muove; nelle altre due quartine, quanto al contenuto, osserverei che non c’è tanto la nostalgia di un dorato passato ad essere evocata quanto il richiamo a un rinnovo dello stato di purezza, a una ritrovata pulizia: qui, ora, questa persona tornata pulita può corrispondere amorosamente in modo spontaneo, e il brivido che accende e intrattiene è puro.
Raffrontando ai versi la prosa che segue, e che si pone come ponte speculativo tra il gruppo di versi che precede e il gruppo che segue, troviamo un’inquietudine sempre incombente, sempre in agguato – ed è, risulta, perenne il desiderio di fuga, e il reperimento dell’escamotage, la ricerca del sollievo: un passaggio che si rivela essere il vero oggetto di questa poesia. Proprio nel raffronto tra versi e prosa, troviamo il contrappunto, la “ripresa” di certe esatte parole se non di intere formulazioni, equivalente tecnico, in termini di espressione, proprio del metodo di ponteggio tra brano e brano – la tecnica del contrappunto, sicuramente ci avrete pensato pure voi leggendo qui, è stata una delle risorse predilette da Ennio Morricone: il Maestro l’ha usata in tutte le sue partiture, come moltiplicatore, come risorsa germinale per eccellenza.
Sinapsi
Come un fiato materno l’aria,
strappa la pelle del volto e il sangue
percola, sulla vista che s’oscura.
I rovi si addossano al ciglio e
là, dove il bosco si muove lento,
tutto è ancora come allora.
Madre
Un silenzio avvolge la caduta
e le persone, e le voci tornano.
Dolce spira – dalle finestre un’aria –
oltre la siepe, mi osserva muto
un merlo tra le ortensie fiorite e
con l’ultimo sorriso che mi resta,
spengo la luce, e ritorna la vita.
L’ombra
Sul pensiero che annega, l’ombra;
quieta sopraggiunge alla notte.
Lieve il suo baluginare smuove,
nell’attesa che il sonno, la disperda.
E rapace si nutre – e del sangue –
sull’oscillante tralucere del tempo
che in questa oscurità risveglia,
la mia folle umanità corrotta.
È un “metodo”, questo procedimento nell’opera di cesello della parola, e ha ragione a dirlo, Gabriele Lastrucci, poeta anche lui, e attento lettore critico, nell’introduzione: ha più di un pregio evocativo.
Lo si vede immediatamente proprio in L’ombra: parafrasando L’infinito, Roberto Masi sfiora la formulazione leopardiana e converte l’immensità del grande Giacomo nella oscurità in cui ci è capitato di risvegliarci per scoprire (ci dice il Masi nei versi appena prima) che oltre la siepe spira un’aria tutta raccolta in un silenzio diverso dal silenzio leopardiano – come diverso, decisamente, è il nostro senso di sospensione: in Leopardi conduceva all’auspicio di una vasta apertura, di una spalancata visione, pur impedita dall’ostacolo fisico, qui ci ritroviamo precipitati in una soffocante clausura.
Questa poetica del richiamo (curiosa formula vaccinale in versi!), intendo questa contaminatio immanente che echeggia i versi di alcuni grandi collegando questa poesia del Masi a una tradizione, che d’altronde si ravvisa anche nella versificazione e nel dettato (come abbiamo visto e ancora vedremo), rende possibile all’immaginazione di sondare un mondo che forse è il vero reale, mentre a noi che siamo da quest’altra parte, al di qua del sogno/incubo, appare, per usare le parole di TSEliot (grande dantista!), come una enorme, globale UNREAL CITY.
Emerge definitivamente la natura rispettiva delle due parti del discorso poetico qui in reciproco dialogo: la poesia ci ritrae con sintesi sapiente, ci fotografa, e le regole dell’ottica che trovano spazio sia tra i versi che tra le righe rivelano lo sguardo e le sue angolature che l’autore adotta e ci ricorda essere il nostro modo di conoscere la realtà, la verità, il mondo (il discorso sulla conoscenza, qui, è rapido e interessante); la prosa, ancorché poetica, apre la perfezione sintetica, a suo modo apodittica e oracolare dei versi, la scardina, e lascia sottentrare le spire del pensiero, la speculazione dell’io colpito dalle immagini e pronto a mettersi in moto per discorrere (speculare) e per interpretare i sogni dopo averli sognati.
[…]
L’idea fiorisce – gemma dall’oblio della coscienza entro i confini della mente che abbatte l’entropia mirando all’ordine. In questo vagare senza struttura reggente, la via della nebulosa è rischiarata dall’annullamento, e libertà griderò per le vie deserte: ricolme di sporcizia abbandonata, palazzi fatiscenti e infissi divelti dalla tramontana. Vento che scardina le porte, strappa via lo smalto delle persiane, sposta le tegole dei tetti che scivolano sul piano inclinato della falda e si sbriciolano a terra uccidendo una madre che s’affanna.
[…]
Proprio così: il vento è come il pensiero, scardina. La prosa, accessorio in apparenza alla poesia, apre il testo in versi per distenderlo, esporlo, alluderlo, farne risuonare l’eco, gli echi – ecco il ponte, ecco la struttura!, quest’idea (medievale) del ponte che dal chiuso dell’arrocco può essere lanciato come solido rostro verso terra e aprire all’esplorazione del mondo – la parola arrotolata nella sintesi dei versi si srotola e si allunga allo scopo di suggerire piste di immaginario, nastri di esplorazione del senso e del sogno.
È importante a questo punto notare che questa raccolta, suddivisa in sei sezioni (Cretti, Tre ricordi, Vénti, Sei sogni, Stato di veglia, Indagine cosmica), disegna un percorso da osservare con attenzione.
In Cretti si immagina una città di grigio cemento, monumento museale alla città viva che sta per tutto il mondo scomparso e solo evocabile: il grigio e l’opaco, qualità del cemento entrambe, hanno tale peso nella raccolta da fornire qualità, spenta, alla luce. Sono in colloquio tra loro le sezioni, in prosa, Tre ricordi e Sei sogni (che però sono tre, dal 4 al 6: giustamente, come sappiamo da Freud, non tutto ciò che si sogna si ricorda, e la trasformazione onirica produce l’obliterazione di gran parte della nostra materia dei sogni, di cui poi, ci dice il grande Bardo, perlopiù siamo fatti). E insieme si orientano verso Stato di veglia (l’intera sezione è costituita da sonetti a schema libero), e tutte e tre le sezioni insieme ritagliano il tempo che questo libro vuole inquadrare, un lembo tra sonno e veglia, in cui l’esercizio dell’immaginario e la meditazione nel pensiero concorrono a destare e placare l’animo. Tutto il libro non fa che tallonare gli ambiti della nostra condizione, del nostro stare al mondo, per tentare di cogliere il senso della nostra collocazione nel cosmo, e di quali echi si debba tener conto per comprenderla senza dispersioni inutili in inutili particolari e senza perdere di vista la posta grande, il senso del destino o della nostra fortuna. Il punto centrale che impiglia ogni nostra riflessione e ci riporta a terra è nella sezione quasi centrale della raccolta, Vénti (che sta per 2020), epoca della nostra pandemia epocale.
C’è in questa raccolta, nel suo tessuto, nel suo dettato, anche un elemento sotteso di provocazione, e la spia di questa sommessa ma costante intenzione, quasi birichina, dopotutto segno di innocenza e purezza poetiche, è l’uso malandrino della virgola – questo innocente segnetto che, subito, è usato volutamente in modo improprio, quasi sfrontato. Rintracciate questo piccolo atto di ribellione, questa rivoluzione innocua ma persistente che Roberto Masi mette in atto, leggendo questo libro profondo e straniante – Si dissolva l’Opaco (scritto con iniziale maiuscola, in origine) –: scoprirete che la virgola, come il vento e come il pensiero, fa una cosetta piccola e dirompente: scardina.