Claudia Colaneri conduce laboratori di scrittura collettiva per disabili adulti con ritardo mentale. La sfida consiste nel trattare temi “alti”.
“Se non avessi parlato con lei non avrei mai conosciuto questo spaccato di realtà.”
“Non può ancora dire di conoscerlo.”
“Lo so, mi piacerebbe passare del tempo con loro.”
“Glielo auguro con tutto il cuore. Quando una qualsiasi barriera, architettonica o di altro tipo, impedisce a un disabile di esserci accanto, siamo noi i primi a perdere qualcosa di veramente prezioso: la possibilità di conoscere persone che vivono in un pezzo di società invisibile.”
“Eppure hanno storie incredibili.”
“Sì, hanno storie incredibili.”
Alba è una nuova ospite del centro; ha 33 anni, i piedi lunghi, come il resto delle sue dinoccolate ossa, i capelli radi e chiari, tanto sottili da sembrare trasparenti, stretti stretti in un elastico alto sulla nuca e raccolti in una treccia sottilissima. Cammina curva, con i gomiti all’indietro; non ama toccare gli oggetti, neanche i propri vestiti. Non le piace andare in bagno perché deve toccare un sacco di cose: il bottone dei pantaloni, l’elastico dei collant, il cotone scadente delle mutande, la carta igienica che le fa schifo, le maniglie, i rubinetti, l’acqua che usano tutti e l’asciugamano, che, almeno quello, è solo suo. Anche toccare il cibo, non le va un granché; perciò infilza tutto con la forchetta, anche il pane.
Il martedì e il giovedì, al centro, tutti i ragazzi praticano il giardinaggio, sotto la guida esperta di un’operatrice. Chi pulisce e mette in ordine la serra, chi innaffia, chi pota le piante, chi rinnova la terra nei vasi.
“Tu Alba, che cosa vorresti fare? Ti andrebbe di piantare i semi di basilico?” Le chiede l’operatrice.
“Devo piantare i semi o scegliere cosa mi andrebbe di fare? Deciditi!”
“Hai ragione. Allora facciamo una domanda alla volta: cosa vorresti fare?”
Alba si guarda intorno, osserva i piedi dei compagni che indossano le galosce, guarda di sfuggita i loro guanti da lavoro, sporchi di terra, e poi comunica la sua decisione: “Io metto la musica.”
Cammina verso lo stereo, contando le mattonelle del pavimento, mentre sussurra tra sé e sé: “Lo dicevo io che questa è una scema!”
La musica le piace “Perché ti arriva addosso ma non ti tocca” disse un giorno. Balla come se fosse avvolta o immersa nella musica; balla con la sua treccia invisibile, come fosse lei stessa una leggera vibrazione sonora.
Alba ama parlare con le persone, o meglio, “alle” persone, perché in fondo parla quasi sempre lei e non le interessa cosa gli altri hanno da dire. Monologa sulla sua vita o sui programmi che vede in televisione, rivolgendo lo sguardo sempre in basso e soffermandosi sulle ginocchia o sulle scarpe del suo interlocutore. Non guarda le persone in viso, eppure riconosce tutti, dagli abiti e dalle scarpe.
Di tanto in tanto, mentre parla, si interrompe e va alla finestra più vicina, avvicinando la fronte al vetro; con gli occhi chiusi, farfuglia sottovoce qualcosa di simile a una litania, poi li socchiude, come due tagli, e resta muta, con lo sguardo che grida aiuto.
“Che succede?” Le chiede un’operatrice.
“Che ne sai, tu, con quella testa malata che ti ritrovi! Che mi chiedi a fare, che, stupida come sei, come faccio a farti capire che significa.”
“Che significa cosa?”
“Il Diavolo. Lo conosci il Diavolo?”
“Sì. So chi è!”
“Ma che ne sai, tu. Tu sei ‘na scema e basta. Neanche ci viene da te, il Diavolo. Io ci sono nata, invece. Stava dentro la pancia di mia mamma.
Lei, mia madre, era santa, ma poi mio padre gli ha infilato il diavolo nel corpo, me lo sono preso io e ci sono nata. Che ne sai, che quello mi faceva sbattere la testa per terra e graffiare i muri. Mia madre doveva gridare più forte di me per non sentirmi. Non mi calmavo neanche con le botte di mio padre.
Un giorno è arrivata una vicina cretina che ha detto a mia madre di legarmi, così che, senza potermi alzare, avevo la gola secca e mi pisciavo nel letto. Quella, mia madre, non mi portava dai dottori, perché lei, da piccola, c’era stata troppe volte e le avevano detto che era ‘na ritardata; e così non voleva che me lo dicevano pure a me. Mi faceva la torta di mele, mia madre, e non era vero che era ritardata, pure se non sapeva leggere.
Tu, per esempio, sai leggere, ma sei ritardata lo stesso.
Nel paese sapevano tutti che gridavo, pure il prete. Quello, un giorno, è venuto a casa e ha detto di slegarmi, che mi doveva fare l’esorcismo. Mi hanno arrotolato nella coperta del divano e mi hanno messo la Bibbia davanti. Pregavano. Io pure, in latino. Che io so pure pregare in latino, mica come te, ignorante maleducata che non sei altro. Poi non mi ricordo che è successo.
Quando se ne è andato il prete, mia madre ha detto che aveva lasciato la ricetta e dovevo restare dodici anni dentro casa, sennò morivamo tutti.
“Santo cielo!” Esclama l’operatrice.
“Ma quale santo cielo? Lo vedi che non capisci niente, poveretta che sei? Io non uscivo neanche prima. Non mi piaceva mica uscire. E poi, che facevo morire tutti, secondo te? Lo sai che dopo un po’ mi sono messa a fare le torte pure io?”
“E tuo padre?”
“Quello sì che era ritardato. Alzava solo le mani. Lo abbiamo mandato a dormire in cantina; la sera tornava dal campo e io gli portavo da mangiare. Ma niente torta.
Stavo bene a casa mia, perché non dovevo vedere la gente con la faccia da stupida come la tua. Non veniva nessuno, menomale. E poi, siccome ogni tanto dovevo stare ancora legata, dove andavo, secondo te? A farmi violentare come mia madre? Quella, una volta, una volta sola, era uscita e uno se l’è violentata; così è nato mio fratello più grande. Poi è venuto mio padre, che non lo voleva sposare nessuna, tanto era ritardato, e s’è preso una violentata con un bambino. E dopo sono nata io.”
“E tuo fratello dov’è?”
“A casa sua, in Inghilterra. Se ne era scappato. Però, anche da lì, continuava a vedere il telegiornale della RAI e un giorno ha visto casa nostra, così è venuto a prendermi. Ma i dodici anni non erano passati ancora. Mancavano soli maledetti tre mesi. E invece sono entrati i carabinieri a casa, e io urlavo, e mia madre pure, e loro dicevano che ero segregata. Mio padre è scappato e poi è morto. E pure mia madre è morta, legata come me, all’ospedale dei matti. Lo vedi che era vero, che non dovevo uscire?
E mio fratello mi ha portato qui, mi ha lasciato con mia zia Nella e se ne è tornato in Inghilterra a lavorare. Mi manda tanti cappelli. Mi piacciono i cappelli. Pure gli ombrelli; perché quando piove, voglio sempre uscire. Mi ha mandato un ombrello di plastica che fa vedere il cielo e la pioggia che ti cade addosso. Pure quella brutta vecchia della moglie nuova del principe Carlo ce l’ha; ma il mio è comprato da mio fratello, il suo no.”
“Cosa fa tuo fratello in Inghilterra?”
“Lavora sui treni. Quando è arrivato, i primi tempi, ci dormiva e mo’ invece ci lavora; è una cosa buffa, vero? Tu le capisci le cose buffe? Mi sa di no. Stai co’ sta faccia da disperata da quando ho iniziato a parlare, invece mica hai capito che so’ tutte cose buffe: le torte, il prete, la coperta del divano, mio padre in cantina e pure i Carabinieri. Mi viene da ridere a pensare a quante cose sceme, senza senso, succedono. Ora invece sto qui da zia Nella e non succede più niente, mi tocca solo uscire tutte le sante mattine e venire qui a vedere la faccia tua da stupida. Per fortuna a Natale mi viene a trovare mio fratello e, se piove, usciamo con l’ombrello della principessa vecchia a vedere il cielo che ci cade addosso e non ci fa niente.”
Alba, allontana la fronte dal vetro della finestra e esce dalla stanza.
“Almeno si può avere un po’ di musica, in questo posto di scemi?”