– Sui due libri più recenti di Francesco Terracciano:
MCM, Oèdipus – Salerno 2021, pagine 116 – €12,50
ESERCIZIARIO DI FORMULE BREVI, Ensemble / ALTER POESIA, Roma 2022 – pagine 70, 12€
31.
Devo lasciarti andare proprio adesso
che sopra i vetri ho rivisto il tuo viso
mobile in un riflesso. I tuoi colori
per strada, il freddo antico di quei giorni.
Pungono i chiodi di un’altra stagione
si intreccia con il ferro che rimane
la lana delle cose. Potrei dirti
che tutto qui è raggiro, nel baleno
che avvolge muri e specchi nelle stanze
ma il male sbanda, è il cuore della sera.
[da ESERCIZIARIO DI FORMULE BREVI]
Sulla carta, Francesco Terracciano è un compassato bancario, come lo furono Pontiggia e Rugarli – mentre con lacci tenaci si tiene in stretta relazione con Thomas Stearns Eliot, che per un periodo lavorò a Londra alla Lloyd’s Bank prima di decollare definitivamente come poeta saggista e editor di Faber&Faber (all’inizio Faber & Gwyer).
35.
Di ogni città le case più lontane
le bettole da poco. Le finestre
aperte all’improvviso. In quale strada
abbiamo visto la nebbia con gli occhi
degli altri, messo croci nei giardini?
Niente da fare, non hanno voluto
fare il tuo nome, quello mio. La sola
cosa da dire è che ci hanno traditi.
Lo sai, sempre lo stesso assillo. Andare
con quelle gambe di ferro. La strada
si tira indietro, ha un sussulto. La terra
è l’unica speranza che rimane
di farcela, la corda a cui aggrapparsi.
Guardi la curva del dorso, l’impronta
di qualche cosa che si fa davanti.
Chiedi a quegli animali cosa sono
se possono capirti. È solo un altro
scherzo del vento che porta le voci
l’osso che hai tolto dal petto, le dita
gettate come semi in mezzo ai fossi.
37.
La luce non arriva qui. Ma è un caso
se tutto quello che hanno costruito
dopo lascia nell’ombra archi e balconi.
Si mette in salvo a modo suo, col giallo
della vernice, quell’altra facciata.
I pini affollano stanze e giardini.
Sembra disteso su un fianco il palazzo
come quei cani che dormono al sole
e aprono appena gli occhi, se uno passa.
[da ESERCIZIARIO DI FORMULE BREVI]
Questa raccolta, ultima in ordine di uscita, non solo utilizza i sogni come scalini o scansioni di sviluppo nel discorso in versi ma suggerisce in modo persistente l’idea o il desiderio che da essi venga la smentita che la realtà sia reale, e la conferma del sospetto di lunga data che quella che abitiamo tutti sia una enorme città irreale in cui ogni orrore e impurezza si dissolvano e alternatamente non smettano di ripresentarsi come ombre sinistre. Un assunto tutt’altro che freudiano, all’opposto della Interpretazione dei sogni, dove il padre della psicoanalisi dopotutto analizzava soprattutto sé stesso. Qui il poeta, guardingo, sempre sul “chi va là?”, con un metodo che, in prevalenza, lo fa procedere per liste cataloghi e apposizioni, e include l’insistenza sul soggetto spostato in funzione proclitica, e poi replicando il modello prediletto nell’uso indulgente dell’enjambement, gioca su equilibrismi che consistono nell’oscillazione lenta tra assunto e azione, tra enunciazione e film. Ciò accade dopotutto anche sulla scorta del famoso incipit di The Waste Land, in The Burial Of The Dead, là dove a una drammatica rinascita, per corto circuito di immagini, segue l’indiavolata corsa in slittino sulla neve.
Nel sogno l’indovina ha la tua mano
aperta tra le sue, la legge. Chiede
una moneta. Ha gli occhi spalancati
sopra qualcosa che vede. Nasconde
le labbra. E poi alla gente che passeggia
racconta il tuo futuro, il mio. Ai bambini
che sfuggono ha già detto di parlare
a bassa voce, a distanza. Fa segno
che resta poco da fare mangiando
foglie di platano, punte di gesso.
[da ESERCIZIARIO DI FORMULE BREVI]
Ecco che si ripresenta Mme Sosostris, la clairvoyante, la chiaroveggente, come altrove riemergerà la libbra di carne tolta col coltello proprio vicino al cuore. Ma si tratta di un sogno, è una deformazione della realtà, una visione irreale – una figura sbucata dal nulla anzi in mezzo al nulla come in certe inquadrature in Blow-Up di Antonioni o come il microchip grande come un’antica stele tra le rocce aride nell’Odissea futuribile di Kubrick:
47.
Tu stavi ferma, eri al centro di un campo
di margherite o di piccoli fiori
bianchi – come saperne, adesso, il nome?
Proprio nel mezzo, come disegnata
tu e la tua tunica stretta. L’estate
che sollevava rami di cotone
nell’aria, un filo d’acqua alle fontane.
Se ti venivo a prendere, restavi
bloccata con i piedi nel terreno
(dicevi cose in una lingua strana)
ma se mi allontanavo diventavi
più piccola e io lo stesso, due bambini
dentro il confine inesatto di un prato.
[da ESERCIZIARIO DI FORMULE BREVI]
Appena prima di lasciare questo libro, tengo a un’ultima considerazione. Non è essenziale, ritengo, stabilire qui cosa è sogno e cosa è realtà, tutto appare irreale in combinazioni inestricabili e il gusto o il destino, la condizione persistente – chiamiamola, sta nella coesistenza di piani diversi e indefiniti, in cui il fattore-chiave è la PAROLA del poeta.
Forse la nostra parola, per loro
è un’occasione mancata. Sentiamo
che cosa vogliono dirci coi segni
che a volte lasciano fuori, sui vetri.
[da ESERCIZIARIO DI FORMULE BREVI]
Questi versi sembrano proporci un aggiornamento sulla figura e sulla funzione del poeta.
Il poeta, uomo tra gli uomini, in versione allargata è vivente tra i viventi, e la sua risorsa non è tanto l’immaginazione cara ai romantici ma è precipuamente LA PAROLA. IL VERBO. Non strumento e segno di superiorità ma chiave che aprendo le porte mette in comunicazione realtà e sogno in una visionarietà interiore, anzi ha il potere ci creare dal nulla quella comunicazione in un circolo magico che, al di là del destino di perdita e spreco, cui tutti gli oggetti e i corpi corrono incontro, riesca a preservare la relazione con la persona cara e tutta l’intimità che in essa si spalanca e prolifera. È un fare spazio che si verifica, dunque, a prescindere dall’osmosi (più che dalla confusione) tra sogno e realtà, rende vero un sentimento di affezione e tenerezza che travolge il corpo.
19.
Il mio paese interiore si svuota
nell’ora in cui la sera accende i muri
di luce calda, nebbiosa. Saluto
chi esce da me e finalmente va a bere
qualcosa, o si trattiene per la strada
con due o tre amici. Mi stupisco sempre
di come cambino i volti al ritorno
di quanta gente nuova trovi posto
da me, che ho solo quelle poche stanze
per farla entrare. Non faccio domande.
39.
Dice di stare comodi. Ha già messo
qualcosa in caldo per noi tra i fornelli
le tazze sopra il tavolo, i coltelli.
Il viso sopra il davanzale, accosta
le tende con la mano, le riaggiusta.
Lampade che si accendono da sole
ma illuminano poco, solo i vetri
e quello che è rimasto della strada.
Abbiamo fatto finta di mangiare
di bere qualche sorso. Adesso state
attenti a quello che vi chiederanno
quando verranno a prendervi. Lo sanno
tutti che questa casa non esiste.
[da ESERCIZIARIO DI FORMULE BREVI]
E così, con un breve giro di valzer, la parola del poeta lascia aleggiare la paura in un quadro che, con pochi oggetti comuni e pochi rapidi segni, col corsivo di un controcanto, e un ribattere sul concetto di irrealtà, oltre a permetterci di fiutare qualcosa di sospetto e di sinistro, dunque a darci un brivido, ci ricorda, o forse ci svela del tutto, che è proprio la vita vera ad essere fatta (per dirla col Sommo e Molto Caro) della stessa materia dei sogni.
Soprattutto nella vita vera, nell’esperienza comune – verrebbe da dire, c’è un’epica involontaria in cui si combinano con variazioni incontrollabili piani temporali ed esistenziali diversi e correlati. Ci sono i luoghi dove tutto ciò accade che poi conservano, in una specie di memoria di pietra, traccia di tutto – è ciò che troviamo in MCM, stavo per dire: album precedente, non solo in senso cronologico ma anche in senso tematico e compositivo, rispetto a ESERCIZIARIO DI FORMULE BREVI su cui si è riflettuto finora.
MCM è acronimo di Manifatture Cotoniere Meridionali, fabbrica tessile nazionalizzata nel 1918, sorta dall’unificazione di corpi dell’industria tessile impiantati nell’area salernitana fin dai tempi di Murat – la MCM cui fa riferimento l’epopea decadente in versi di Francesco Terracciano è vista in una fase di interregno in cui, abbandonato il sito industriale diffuso, caduto pertanto in disuso e nel disastro strutturale, una sua propaggine dev’essere integrata nel Centro Direzionale nell’area di Poggioreale, sito anche del grande carcere napoletano.
12
Le cose che sono passate, le scritte
sui muri. Quelle ingenue dei ragazzi
la bava della storia nei cartelli
sbiaditi, sulla campana del ponte
o nelle pietre del penitenziario
nere, taglienti. Cantano di notte
qualche messaggio a chi è dietro le sbarre
giovani nella strada. Due monete
bastano ancora a pagargli da bere.
Saluta tu, continua a salutarlo
anche se non c’è più da tanto tempo.
E alza la testa, se attraversi il ponte.
[da MCM, seconda sezione: MENO – pagina 20]
“La bava della storia” (definizione che trovo straordinaria) è tutta nelle scritte sbiadite di un posto enorme e dismesso: immenso fantasma. Anche aggirarsi tra i locali in degrado o attorno ai capannoni tra sporcizia e residui di una vita finita è come muoversi tra le ombre. E lo scontro tra la memoria di pietra rappresentata dalla fatiscenza delle strutture e i segni sparsi ma inesorabilmente decaduti di un attivismo abbandonato da lungo tempo, ormai, insinua, oltre alla depressione e al buttarsi via di chi sconta questo degrado, un senso sinistro di paura e di forte disagio. In altre parole, è dolente la sorte di chi ne è testimone o attore.
Gli attori qui sono Alberto, Nino, Giulio, Enrico, Elisa, Adelina, Maria e Anna. Echeggiano le loro voci e le voci dei loro cari, le voci di folle intere di persone che nei decenni si sono susseguite e hanno animato quei luoghi ora spogli e inanimati, minerali.
MCM è un poema civile che si sviluppa in quattro parti, e ha l’impatto di certi film di Francesco Rosi sulla speculazione e sulla distrazione di opere e risorse dall’utilità e i vantaggi per i civili e gli operai dell’area alla concentrazione su progetti immobiliari nelle mani di pochi plutocrati.
Il canto che si leva da questi componimenti è ordinato e sorvegliato, a dispetto di quanto il loro nucleo è disperante.
Nella sezione MOSSO, la prima, gli 8 componimenti consistono tutti in due quartine e un solitario verso finale, come una clausola:
7
Giulio gli scioglie i cani addosso, al buio
a quelli ubriachi che dormono in strada.
Due morsi al collo e sono belli e andati.
Tanto sarebbero morti di freddo
o sotto qualche macchina. Li prende
sporchi di sangue e di grasso, dai lembi
dei pantaloni. Li trascina in cima
fino al portone di una chiesa chiusa
come lasciandoli in braccio al Signore.
Dopotutto la sfilata delle otto “personae”, posta all’inizio, è piuttosto un exeunt, è un congedo in cui vediamo come sono finiti.
Nella sezione MENO, la seconda, di soli cinque “pezzi”, un po’ come fa nell’Ulisse quel fine umorista nero che è James Joyce, ogni poemetto è un tipo di componimento diverso. Il numero dei versi varia in ognuno, e tende ad allungarsi. C’è persino un sonetto inglese. Il più incisivo è il canto centrale:
11
In nessun altro posto così tanti
sfasciacarrozze, tanti cimiteri.
Quelli più grandi sopra la collina,
i piccoli nascosti tra le curve
di qualche strada, o chiusi tra i palazzi.
Alcuni vogliono spostarli, i nuovi
insediamenti reclamano spazio.
Vedi come trattengono la terra
Stanca, affollata, quelle reti gonfie
vedi la loro fatica di stare?
Carcasse, gusci vuoti. Messi in fila
o l’uno sopra l’altro. Quando stacchi
una portiera viene fuori il sangue
dai giunti. Se riaccosti le ossa lente
ad uno scheletro ti cade addosso
la ruggine, il metallo sopra i piedi.
Simul stabunt vel simul cadent, ecco
la frase che li dice. È la rovina
che è sparsa qui. La morte c’entra il giusto,
un giorno appena. Il resto è colpa nostra.
Simul stabunt vel simul cadent: è tutto un crollo, nulla è risparmiato da una decadenza che è diffusa.
La terza sezione, MCM, dà il titolo all’intera raccolta. I componimenti contano un numero variabile di versi e tendono anche qui a varie aggregazioni in strofe di varia misura le cui somme variano pure. È l’intonazione di un’elegia in cui la materia cantata è impigliata di detriti e resti in un coro toccante.
34
Sapere qui il suo nome. È come un fascio
di luce che si ferma all’improvviso
su un corpo solo. Trattieni il respiro
gli chiedi di sedersi ma è già andato
scomposto, fragile da qualche parte
sopra uno stelo, un’unghia, in mezzo a un campo.
Qui fanno sigarette con la roba
che portano di notte, di nascosto.
Le scatole finite, i pezzi interi
– le stecche, come vengono chiamate
Poi le rivendono gli altri per strada.
Venuti avanti. Che cosa succede.
Ora facciamo. Presto, non c’è tempo
e metti tutto qui. Tieni, i tuoi soldi.
Quello che c’è. Per il bene di tutti
che non potreste stare qui, lo sai.
Meno che parli è meglio. Stai coperto.
Pensare solo a tastoni, coi gesti.
Fuori pezzi di carne. La materia
cosciente, andata nella sua fatica.
È una sezione intensa, dove la folla dei vivi di adesso oltraggia la folla dei fantasmi che in un altro tempo hanno animato il posto: ci sono tanti piccoli David, crudeli nella precisione delle mire di fionde e pietre: e le bambine che giocano con pentoline scodelle e stracci, e le danno e le prendono, come nella vita; c’è una voce che dà valore agli oggetti in cui dopotutto consistono le vite: persi quelli tutto è perso; c’è un cane macilento che sembra malato ma è una cagna che fa i cuccioli; c’è lo strazio dei giochi crudeli sulle lucertole. Ci troviamo davanti un reportage poetico che lentamente compone il quadro, e mentre lo riempie di dettagli e voci lo chiarisce.
26
Sporchi, cotti di sole. Di sicuro
le mani andranno lavate, i vestiti
messi nell’acqua e detersivo a bagno.
Avanza piano, il piccolo plotone.
Tra poco si disperde per le scale
ciascuno dentro una porta. Facciamo
per una volta un giro tutti insieme?
Si può arrivare in fondo alle discese
al muro della fabbrica: che dite?
Domani dopo pranzo, a noi va bene
Adelina, Maria, Elisa, Anna
Enrico, Nino, Giulio, Alberto.
E c’è il disegno, delle palazzine come dei tessuti. Questa intuizione anticipa una visione, l’immagine suggestiva di un esercito di lavoratori di pietra che subito fa pensare all’esercito di terracotta di Xi’an.
35.
Qui avreste fatto meglio a non venire.
La luce strana di una taglierina
che un uomo fa girare tra le dita
o un’arma nuova. Conosco quel viso
quel viso non l’ho visto prima. L’antro
troncato in due da un pilastro crollato.
La porta chiusa, il segno della croce
fatto dalle assi di legno. C’è un varco
dall’altra parte, un ingresso nascosto
alla sua sponda il viso familiare
che non ti aspetti.
La scia di vapore
la polvere nell’aria che fa male
se la respiri. Dalla rupe in alto
segni di cupole e di campanili
una città di gesso: neanche un grido
per spaventarlo, il perdono non c’era.
Di fronte a questo non resta che una preghiera:
37.
[…]
Piaga qualunque che sei scesa in terra
decidi l’ora giusta, poi guarisci.
– un pensiero che balena anche nelle nostre menti, ora che il mondo è travolto da un’ondata virale. La vera rivelazione è che, anche in MCM, Francesco Terracciano afferra una verità sconvolgente:
45.
[…]
(Ci sono, sto qui dentro, non mi vedi?)
Deducant te angeli
46.
[…]
Vengo con te, ti accompagno. L’hai vista
mai questa strada sospesa. Nessuno
ti chiederà il biglietto, non esisti.
Anche qui siamo lungo una traccia sospesa, in un luogo irreale, che, più che un sogno, è un incubo e una visione – mi pare che la diagnosi si sia aggravata. Sul finire della sezione MCM appare un mostro – una betoniera, e appaiono acrobati e lamiere. E la constatazione che è: Un lago strano, la memoria.
La penultima sezione, VIVO, oltre a registrare a un certo punto un elemento proprio del canto ma più della musica leggera, l’inciso, o ritornello, in cui si addensa l’ulteriore “rinvenimento” in mezzo a tanto disastro:
61
[…]
I nomi non ci sono mai serviti.
Ora possiamo lasciarli per terra
ai cani, al vento. Tu non ricordare.
– che fa corto circuito col “lago della memoria”, mette in moto un salto spaziotemporale che è una invenzione quasi post-modernista in MCM: le interviste, le domande, oggi, su quel luogo e su ciò che poi è diventato, su ciò in cui la vorace riconversione e nuova destinazione d’uso ha trasformato il sito agganciandolo a treni socioeconomici nuovi, la voce viva su ciò che MCM è stato, magicamente porta indietro a quando gli otto attori della storia erano nella loro più tenera infanzia, ancora al di qua dai loro destini, ancora in salvo da ciò che a loro insaputa li aspettava a fauci aperte:
69.
Ci credi? Mette sempre gambe e braccia
fuori dai ferri del balcone. Resta
per ore intere a guardare di sotto,
fa segni, parla con qualunque cosa.
Mi viene un colpo ogni volta che scopro
che da una stanza vicina è passata
tra i vetri aperti. E se le dico “Elisa
togliti subito, è pericoloso”
si volta e ride, ma mi prende in giro.
72.
Le piace correre sopra in terrazza
tra le lenzuola stese ad asciugare.
Quando il vento le gonfia, Anna si tuffa
di testa come in una vela. Passa
subito a quella dopo, e dopo a un’altra
e si allontana. Il bianco la stordisce.
Il tempo di guardare che c’è intorno.
Quando si sente persa, lancia un grido
dove si trova. Mi tende le braccia.
___
È questa anche la chiusura di un cerchio, un abbraccio impossibile, irreale, sognato. Le braccia di queste anime regredite all’infanzia dunque nel tempo in cui erano anime salve si tendono verso il poeta e sigillano una storia circolare, vociata, cullata nella memoria, rivelata dalla parola della poesia – e si stabilisce qui in termini di affezione e umana condivisione un senso di intimità e sodalità piena che troviamo poi in ESERCIZIARIO DI FORMULE BREVI. In effetti le quattro raccolte pubblicate finora da Francesco Terracciano (le prime due con lo pseudonimo François Nédel Aterre) tracciano un tragitto la cui natura di sotterraneo continuum è sottolineata nella numerazione che al di là di unità e sezioni corre progressiva come a documentare la persistenza compositiva e ideativa dell’autore. Raccomando a chi leggerà MCM di nutrirsi alla postfazione firmata da Vanina Zaccaria, davvero splendida.