Claudia Colaneri conduce laboratori di scrittura collettiva per disabili adulti con ritardo mentale. La sfida consiste nel trattare temi “alti”.
“E quei ragazzi che non riescono a parlare bene? Quelli, come dire, più gravi degli altri? Come fanno ad esprimersi?”
“Vediamo, forse lei intende qualcuno come Leo.”
“Chi è Leo?”
Leo è un vichingo di quasi due metri per centodieci chili, occhi color Mare del Nord, pelle trasparente, capelli d’oro sbiadito, capienza toracica da cisterna di gasolio e potenza vocale da allarme nucleare. Cammina avanti e indietro per il corridoio del centro, seguendo un tracciato preciso, invisibile e obbligato, falciando chiunque azzardi un attraversamento.
“Che macchina hai?” chiede con la voce di Titti il canarino, a chiunque entri nella struttura.
“Una Nissan”. Gli rispondo ogni giorno.
“Prima avevi?”
“Una Yaris”
“L’hai buttata la Yaris, l’hai buttata?”
“No, l’ho venduta”
“Sei sposata, sei sposata? Sei signora?”
“Mamma è sposata? È una signora grande tua mamma?”
“Sì, è sposata con mio padre. A casa mia si sposano tra parenti, pensa!”
Con questo tipo di risposte riesco a provocare in lui una reazione; forse lo sorprendo, tanto che per un attimo riesce a guardarmi negli occhi, con un sopracciglio alzato. Probabilmente sta pensando che sono un po’ scema e questo mi diverte molto.
La conversazione si conclude con lui che mi guarda le gambe e dice: “Golden Lady”; io rispondo “No, l’estate non porto le calze” mentre dentro di me penso: “Meno male, oggi sono a posto”. No, perché se invece ho avuto una nottataccia, o non so neanche io cosa ho messo addosso per uscire di casa, ecco la sentenza di Leo, capace di annientare l’autostima di qualsiasi donna: “Silk Epil”.
A volte, quando mi vede, le canta: “Nuvenia pocket, sicura a vai”. E io so perché, e forse lo sa, o lo percepisce, anche lui.
Ogni giorno, Leo cammina, cammina, cammina strofinando la mano sulla parete del corridoio, radendo al suolo qualsiasi ostacolo, avanti e indietro, cinquanta volte, cento volte, forse di più.
Ogni giorno, più o meno alla stessa ora, mi scappa la pipì e il mio problema è raggiungere in qualche modo la toilette in fondo al corridoio. Mi affaccio sulla soglia della stanza, calcolo la distanza e la velocità di marcia di Leo, poi mi butto; sperando di non finire come quella volta che, uscendo dal bagno, mi avventurai in un attraversamento sconsiderato e finii asfaltata da uno schiacciasassi con la voce da canarino.
Via libera. Realizzo che posso rientrare sana e salva nella sua stanza; ma avverto uno strano silenzio, nessun suono di suole trascinate sul pavimento, nessuno spostamento d’aria, nessun odore di sudore stantio. Leo deve essersi fermato.
Attendo qualche secondo poi mi muovo con circospezione. Potrebbe rimettersi in moto all’improvviso. Lo trovo lì dove so di doverlo cercare, nella sala di musicoterapia: l’unico luogo dove Leo riesce fermarsi, sedersi e togliersi le scarpe. Lui, come al solito, si posiziona alla tastiera e vuole che vada accanto a lui. Ama suonare i tasti più a destra, i toni più acuti, quelli che imitano la sua voce da bambino. Io accompagno le sue melodie casuali come in un’improvvisazione. Sono abituata a vederlo immergersi in questa tonalità così acuta, così infantile. E poi Leo canta senza guardarmi, canta sempre la canzone del cartone animato di Pinocchio: “Naso di legno, cuore di stagno… Sono un burattino e non mi fermo mai”.
Sono otto mesi che cerco di stabilire un contatto oculare con lui, mentre canta. Ma lui resta un burattino.
Eccolo, sta cominciando di nuovo il rituale dei tasti acuti e della canzone di Pinocchio. Ma oggi voglio andare a svegliare un altro Leo. Voglio farlo crescere, almeno nella voce.
“Fatti mandare dalla mamma, a prendere il latte”. Lui ride, conosce questa canzone perché fa parte del repertorio di sua madre. Ancora la voce da bimbo. Cresci Leo. “Portaportese, Portaportese cosa avrai di più?”.
Mi sfilo gli stivaletti e ci sediamo sul tappeto di gomma. Appoggio una chitarra in orizzontale, tra di noi; lui prende un battente e ne colpisce le corde: “C’è una vecchia che ha sul banco foto di Papa Giovanni”. Ha trovato il ritmo giusto, sorride e guarda in alto, quasi stesse attraversando il soffitto. “…E la foto nuda di Brigitte Bardot”. Ora ride sonoramente e agita le mani; si alza in piedi e va accanto alla conga. Batte con un solo palmo, sempre più forte. Sembra eccitato, sorride, ma ancora non mi guarda. Batte, batte forte, ormai non ascolta più. Colpisce con tutta la sua forza, i colpi rimbalzano sulle pareti e gli vengono addosso. Entrambi siamo investiti da un’onda d’urto acustica che entra nella testa, nel petto. Cervello e cuore sembrano sul punto di esplodere.
Mi alzo, prendo un tamburello e lo accompagno: “Portaportese, Portaportese, Portaportese, cosa avrai di più?”. Lui si stacca dalla conga e mi segue per venire a suonare con me il tamburello, mi faccio rincorrere per un po’, poi mi faccio raggiungere e saltelliamo uno di fronte all’altra, in cerchio, intonando a squarciagola: “Viva, Viva, Viva l’Inghilterra”.
Ci fermiamo, ha il viso rosso e il respiro affannato. Guarda ancora nel vuoto.
Mi avvicino a lui, lo prendo per mano e lo faccio sedere sul tappeto accanto a me. I nostri respiri rallentano fino a raggiungere la sincronia.
Fissa i disegni sui miei calzettoni colorati; rilassa i muscoli del viso e socchiude gli occhi. Pian piano raddrizza la schiena, inspira e gonfia la pancia.
“Ooooohhh, ooooohhh” emette quasi uno sbadiglio.
“Ooooohhh, ooooohhh” quel suono esce puro dal grande torace di Leo. È un suono tondo, potente e molto, molto profondo. Questa è la sua voce. La sua vera voce. È calda, matura e giovane allo stesso tempo, accogliente e rassicurante come quella di un fratello maggiore.
“Ooooohhh, ooooohh. Cooooon teeee, partirò.” Leo riempie la stanza con il suo respiro e con il suo timbro da uomo.
Anche se non riuscirà mai a raccontarmi come si è sentito in quel momento, mi piace pensare che fosse felice.
Sulla scheda ho annotato tutto, anche il fatto che non ha mai incrociato il mio sguardo; tuttavia è riuscito a stabilire un contatto profondissimo che lo ha trasformato.
Leo è diventato grande, insieme alla sua voce.