Domenica scorsa, 21 marzo, giornata che il pianeta si fregia di dedicare alla Poesia, è entrata la primavera (in realtà sembra che la stagione astronomica sia entrata già sabato 20). E domani 25 marzo si celebra il cosiddetto Dantedì. È appena necessario ricordare che l’intero viaggio oltremondano che Dante anima lungo le tre cantiche inizia poco dopo l’equinozio di primavera e si allunga fino al mese d’aprile: è il poeta, nel primo canto della prima cantica, a dircelo e a stabilire subito una somiglianza col Libro dei Libri, la Bibbia, che nei passi sulla creazione sottolinea che Dio la portò a compimento, in 6 giorni + 1 di riposo = 7, proprio nell’equinozio di primavera.
37 Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
40 mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
43 l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
[Dante Alighieri, Comoedia (che Giovanni Boccaccio per primo, nel Trattatello in laude di Dante, definì Divina), Inferno, Canto I – I ed. 1321]
Dante se la vede male ma la similitudine di cui sopra lo sostiene: la primavera offre sempre conforto.
Ogni anno, come stagione vuole, torna la primavera in un tripudio di condizioni atmosferiche contraddittorie: perché entra in marzo e marzo è il più pazzo dei mesi; e perché l’idea della primavera scaccia dalla nostra mente anche la sola idea del freddo, e invece questi giorni di passaggio sono gelidi, persino più che il cuore dell’inverno.
Però due sono i segni certi dell’arrivo della primavera: le gemme e il vento.
Gemme ovunque, di un verde chiaro brillante e lucido, e folate d’aria a volte potenti, a volte che ghiacciano, qualche rondine che comincia a trasvolare, uccellini che cinguettano senza vergogna…
Allora hanno ragione i poeti a invocare zefiro, non solo alito persistente, ma indizio anche di un movimento che in sé è la transizione del cambiamento: vento portatore del nuovo, invocato, o forse, come pare, rievocato, visto che torna ogni anno, e ogni anno poi si dispone a maturare e compiersi nel calore estivo e poi a decadere sotto la patina d’autunno fino a estinguersi nella terra invernale.
E poi il giro puntualmente riparte, in un ciclo inesausto e antico.
“Sto anch’io sospirando caldamente la bella primavera
come l’unica speranza di medicina che rimanga allo
sfinimento dell’animo mio; e poche sere addietro, prima
di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo
un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria
tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si
svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di
sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come
un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui
voce mi pareva di udire dopo tanto tempo.”
Così scriveva Giacomo Leopardi all’amico corrispondente Pietro Giordani, il 6 marzo 1820.
Poi nel gennaio del 1822, composti in dodici giorni, Leopardi dedica versi che qui riporto in parte:
Alla Primavera
o delle favole antiche
Perché i celesti danni
Ristori il sole, e perché l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s’avvalla;
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d’amor desio, nova speranza
Ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui la sciagura e l’atra
Face del ver consunse
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch’amara
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dessueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D’immortal piede i ruinosi gioghi
Scossero e l’ardue selve (oggi romito
Nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
Meridiane incerte ed al fiorito
Margo adducea de’ fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d’agresti Pani
Udì lungo le ripe; e tremar l’onda
Vide, e stupì, che non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
Polve tergea della sanguinosa caccia
Il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l’erbe,
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur dell’umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te de’ mortali
Pensosa immaginò.
[…]
Va da sé che tagliare Leopardi è sacrilego, però mi fermo qui per fare il punto su un Canto che è mirabile non tanto o soltanto perché forse c’è bisogno di qualche notazione per cogliere il testo, quanto per fare un paio d’osservazioni che qui ci mandano avanti nel nostro discorso, il mio e il vostro, in comune, insieme. Fin dai primissimi versi e in tutto il tessuto del Canto leopardiano sono numerosissimi i debiti che Leopardi esibisce con orgoglio di classicista, di studioso dei grandi classici appunto. Subito si animano Dante e Virgilio, Orazio, Omero, Lucrezio e Bernardo Tasso, e si affaccia proditorio Carducci [“Con gli occhi intenti il viator seguendo-“, Leopardi – “Sta il cacciator fischiando sull’uscio a rimirar-“, Carducci], in un mezzofondo olimpico (straordinario, non trovate?, riferire questa disciplina sportiva a Leopardi ch’era “una canna secca” e ritorta, ma tant’era, quanto a poesia), che non è solitario ma è affollato di fratelli, e che comporta anche la raccolta del testimone da passare poco più in là a un altro che corre avanti, corre dopo. Qui la primavera è tema biunivoco in cui troviamo immagini del mito e immagini legate al ricordo, all’infanzia, a un rapporto fiabesco quasi con la Natura – e sappiamo quanto Leopardi incolpasse la Natura d’essergli matrigna.
La primavera è il trionfo della Natura.
È momento di travaglio e allegria, di rinascita e drammatica rivoluzione.
Per Sir Geoffrey Chaucer la primavera è risveglio, riavvio di movimento, come leggiamo nel Prologo Generale [April Sweet Showers – Aprile Dolci Scrosci] dei Canterbury Tales:
When in April the sweet showers fall
And pierce the drought of March to the root, and all
The veins are bathed in liquor of such power
As brings about the engendering of the flower,
When also Zephyrus with his sweet breath
Exhales an air in every grove and heath
Upon the tender shoots, and the young sun
His half-course in the sign of the Ram has run,
And the small fowl are making melody
That sleep away the night with the open eye
(So nature pricks them and their heart engages)
Then people long to go on pilgrimages
And palmers long to seek the strangers strands
Of far-off saints, hallowed in sundry lands,
And specially, from every shire’s end
Of England, down to Canterbury they wend
To seek the holy blissful martyr […]
[questo testo è “tradotto” nell’inglese contemporaneo dal Middle English che proprio Sir Geoffrey Chaucer codificò usando per il suo poema comico l’inglese di Londra e delle East Midlands, di fatto “creando” l’inglese letterario: dunque divenendo padre della letteratura inglese come Dante lo è stato per la letteratura italiana]
Quando i dolci scrosci in aprile cadono / E infiltrano la terra secca di marzo giù fino in radice / E tutte le vene sono imbibite da liquido sì potente / Da causare il generarsi del fiore, / E quando anche lo zefiro con il suo dolce respiro / Esala il proprio alito in ogni bosco e brughiera / Sulle tenere gemme, e il giovane sole / Ha ormai coperto metà del suo corso in Ariete / E gli uccellini cantano la loro melodia, / Dormendo tutta la notte con un occhio aperto / (A questo la natura li pungola e provoca i loro cuori), / È allora che la gente desidera andarsene in pellegrinaggio / E i palmieri [in genere pellegrini in Terra Santa (come ci informa Dante in Vita Nova, ndr)] vanno a cercare percorsi diversi / Dove santi lontani sono venerati in luoghi vari / E in particolare dal capo d’ogni contea / D’Inghilterra, scendono verso Canterbury / Per andare a cercare il beato santo martire […] – [traduzione mia, alas!].
Qui abbiamo tutto: zefiro e gemme anzi germogli.
In più c’è questa voglia di uscire di casa e intraprendere i cammini di devozione che nel secondo medioevo detto Basso divennero una forma di turismo. Il poeta, Chaucer in persona, si unisce a un gruppo di 29 pellegrini (che fa 30) diretti alla Cattedrale di Canterbury per fare visita al sacro sepolcro del santo arcivescovo Thomas Becket, assassinato dai cavalieri inviati dal re Enrico II il 29 dicembre del 1170. Li incrocia in una locanda, il Tabard Inn, a Southwark (pr.: suh·thrk). Chaucer è subito attratto dalla varia umanità radunata attorno alla questione del pellegrinaggio e la sua abilità non sta solo nel descrivere in modo sapido e vivace ciascuno dei pellegrini (ma noi possiamo leggere solo alcuni dei ritratti, perché l’opera è incompiuta) ma nel vestire panni da ingenuo per spingere ognuno di loro a vantarsi a esporsi a esibirsi, e quelli ci cascano con tutti i piedi. L’opera è comica in modo irresistibile anche per l’andamento musicale dei distici in pentametri giambici (che peraltro è il ritmo naturale anche dell’inglese parlato, come ci informa Vanessa Redgrave in un piccolo gioiello, il docufilm realizzato anni fa da Al Pacino, LooKing for Richard, girato in vista di una sua edizione a Broadway del Riccardo III). Nell’opera chauceriana ci colpisce tuttora l’intraprendenza della gente comune, lo spirito di impresa che accorda il lato pratico al lato … spirituale, appunto: proprio ciò che dà pregio all’affresco sociale che tanto è piaciuto anche a Pasolini quando ha girato i tre film della Trilogia della Vita: Le Mille E Una Notte, Decameron, e Racconti di Canterbury appunto.
Francesco Petrarca non aveva lo stesso animo nei confronti della primavera.
«Primavera per me pur non è mai»: lamenta Petrarca nel nono sonetto del suo Canzoniere composto a Valchiusa. Ormai per lui non c’è che dolore e tristezza: ha perduto per sempre la sua Laura, così nel Sonetto 310 composto nella primavera del 1352, puntualmente al verso numero 9, il verso della svolta sempre nel sonetto, arriva il suo MA, e Petrarca contraddice quel senso di resurrezione che, come osservava il critico Gianfranco Contini, ha sempre pervaso invece la poesia d’amore trobadorica
Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
et primavera candida et vermiglia.
Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;
Giove s’allegra di mirar sua figlia;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;
ogni animal d’amar si riconsiglia.
Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;
et cantar augelletti, et fiorir piagge,
e ’n belle donne honeste atti soavi
sono un deserto, et fere aspre et selvagge.
Anzi tutto quel rifiorire della vita e degli amori è una legnata ancor più acutamente sofferta dal poeta
Anche Shakespeare nel suo sonetto più famoso, il 18, che paragona il bel giovane a una bella giornata (d’estate) parte da lontano, da prima, e mette in moto i rough winds, i venti bruschi, i quali do shake, cioè davvero scuotono o scuotono di brutto, the darling buds of May, cioè i cari boccioli di Maggio – una immagine di precipitosa trasformazione, rincarata dal verso, and Summer’s lease hath all too short a date, che decreta l’arco breve dell’estate, per giunta fatta di giornate investite da un sole violento o oscurato dalle nuvole. Certo tutto è destinato a sorgere crescere e appassire, e invece (puntuale scatta al verso 9 il click della svolta: BUT thy eternal summer shall not fade…- prodigio!, caro giovane, la tua eterna estate non svanirà) il sonetto dona un’eterna estate all’amico, e attraverso la ripetizione nel tempo di quei versi la sua definitiva immortalità.
Il sentimento della primavera è operoso e contemplativo nello stesso momento se ascoltiamo i versi di Emily Dickinson, che dopotutto ci mette su un giretto di noir inatteso e insospettabile.
A Light exists in Spring / C’è una luce in primavera
Not present on the Year / Che l’anno ignora
At any other period – / In altri periodi –
When March is scarcely here / Quando marzo è appena arrivato.
A Color stands abroad / Fuori – il colore
On Solitary Fields / Sui campi solitari
That Science cannot overtake / Che non può sciogliere la scienza
But Human Nature feels. / Ma il sentimento attinge.
It waits upon the Lawn, / Aspetta sul prato,
It shows the furthest Tree / Mostra l’albero remoto
Upon the furthest Slope you know / Sul pendìo più lontano
It almost speaks to you. / Quasi ti parla.
Then as Horizons step /Quando gli orizzonti dileguano
Or Noons report away / O i mezzogiorni riparano altrove
Without the Formula of sound / Senza formula sonora
It passes and we stay – / Passa e noi restiamo –
A quality of loss / Un senso di perdita
Affecting our Content / Opprime la nostra gioia
As Trade had suddenly encroached / Come un commercio improvviso
Upon a Sacrament. / Intacca un sacramento.
[ED – 812 (traduzione di Nadia Campana, Meridiano a cura di Marisa Bulgheroni)]
Spring is the period / La primavera è il tempo in cui
Express from God / Si esprime più schiettamente Dio
Among the other seasons / Nelle altre stagioni
Himself abide / si nasconde
But during March and April / Ma di marzo e d’aprile
None stir abroad / Nessuno può passeggiare all’aperto
Without a cordial interview / Senza un dolce dialogo
With God / Con Dio.
[ED – 844 (traduzione di Silvio Raffo, Meridiano a cura di Marisa Bulgheroni)]
Spring comes on the world / La primavera ritorna sul mondo
I sight the Aprils – / Guardo l’aprile – che non ha colori
Hueless to me until thou come / per me, finché tu venga,
As, till the Bee / Come, prima del giungere dell’Ape
Blossoms stand negative / Inerti stanno i fiori
Touched to Conditions / destati dall’esistenza
By a Hum. / Da un ronzio.
[ED – 1042 (traduzione di Margherita Guidacci, Meridiano a cura di Marisa Bulgheroni)]
Questa dilagante presenza dell’Aprile ci traghetta automaticamente verso un piccolo ma non lieve corto circuito tramite il quale per contrasto saltiamo dal prologo di Chaucer ai più famosi versi del poeta novecentesco per antonomasia, Thomas Stearns Eliot, americano naturalizzato poi inglese:
THE WASTE LAND, I. The Burial of the Dead
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.
[LA TERRA DESOLATA, I- La sepoltura dei morti. Aprile è il più crudele dei mesi, genera / Lillà da terra morta, confondendo / Memoria e desiderio, risvegliando / Le radici sopite con la pioggia di primavera. / L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse / con immemore neve la terra, nutrì / Con secchi tuberi una vita misera. (T. S. Eliot, POESIE – cura e traduzione di Roberto Sanesi, Ed Bompiani)].
Appare evidente che, esattamente come Sir Geoffrey Chaucer nel suo famoso incipit, Eliot monitora il crack della crosta terrestre quando dal seme nelle profondità oscure sorge il germoglio, però il suo sentimento di questo fenomeno naturale è affatto diverso: per Sir Geoffrey Chaucer è la rinascita attesa, per T. S. Eliot è il dramma della nascita, un passaggio, una trasformazione miserabile, e in noi l’immaginazione dà spazio al disastro, alla desolazione, e il nostro animo si predispone all’indagine impietosa nella condizione umana. L’ossimoro di fondo genera tutto il poema e lo alimenta, e sembra avere in sé l’antidoto, il sospetto dell’acqua: la sete la attende, e la chiama.
Dopo genererà quella coincidenza di inizio e fine che permea per intero i Quattro Quartetti, in special modo BURNT NORTON, il primo, che coincide con la primavera: l’inizio (dantescamente – Eliot è stato un grande dantista) di un’avventura che è ricognizione e speculazione insieme: poesia del pensiero, direbbe a questo punto George Steiner.
Ai Quartetti però vi rimando: edizione Garzanti 1959, traduzione di Filippo Donini, oppure edizione
Enrico Damiani 2013, traduzione d’autore di Raffaele La Capria, illustrazioni originali di José Munoz,, CD accluso – letture di Paolo Bessegato). Anche io mi sono lanciata nella ritraduzione, ma per adesso nel chiuso della luce azzurrina delle finestre digitali.
Ma eravamo partiti dall’alito di vita che è lo zefiro gentile e le gemme / i germogli primi segni di vita.
Allora viene spontaneo citare l’indomito Percy Bysshe Shelley con la sua Ode al Vento Occidentale (o Vento dell’Ovest, oppure Vento di Ponente) in cui il poeta vuole diventare quel vento, vuole essere la sua gentile e insistente persistenza e forza di persuasione, e vuole portare una forza primaverile nel contesto di un mondo che sembra essere nel proprio autunno – è a un passo dall’essere perduto ma ancora non lo è. Quel vento è preserver and destroyer, e a tratti nell’anno attraversa le stagioni,
[IV] If I were a dead leaf thou mightest bear;
if I were a swift cloud to fly with thee;
a wave to pant beneath thy power, and share
the impulse of thy strength, only less free
than thou, O, uncontrollable! If even
I were as in my boyhood, and could be
the comrade of thy wanderings over heaven,
as then, when to outstrip thy skiey speed
scarce seemed a vision; I would ne’er have striven
as thus with thee in prayer in my sore need.
Oh! lift me as a wave, a leaf, a cloud!
I fall upon the thorns of life! I bleed!
A heavy weight of hours has chained and bowed
one too like thee: tameless, and swift, and proud.
[V] Make me thy lyre, even as the forest is: […]
[IV] S’io fossi una foglia morta che tu potessi condurre; / s’io fossi una nuvola rapida che volasse con te; / un’onda per vibrare al tuo potere, e condividere / l’impulso della tua resistenza, solo meno libero / di te, o incontenibile! Se anche io fossi / come da bambino, e fossi / il compagno del tuo vagabondare in Cielo, / come allora, quando sopravanzare la tua velocità celeste / pareva quasi una visione; mai avrei combattuto / in preghiera con te nella mia disperazione. / Oh! Sollevami come onda, come foglia, come nuvola! / Crollo sulle spine della vita! Sanguino! / Un incombente peso ha incatenato e curvato / qualcuno a te troppo simile: senza paura, e rapido, e orgoglioso.
[V] Fai di me la tua lira, com’è già della foresta: […] [probabile traduzione di Mario Praz]
L’Ode è stata scritta da Shelley a Firenze alle Cascine nel 1819: il poeta che non trovava terra che lo reggesse scelse l’Italia per unirsi ai Carbonari, e per la loro causa morì solo tre anni dopo, ritrovato sulla spiaggia di Viareggio dopo dieci giorni dalla partenza da Lerici e dalla sua Casa delle Onde. Uno sfortunato naufragio, in apparenza, in realtà forse frutto di un sabotaggio.
Zefiro gentile è anche nei più famosi versi di Ugo Foscolo, poeta forsennato – come ci racconta Luigi Guarnieri in Forsennatamente Mr Foscolo (La nave di Teseo, Milano 2018), gustosissimo ritratto del poeta e delle sue disavventure in Inghilterra, che molti addussero debiti alla sua famiglia rimasta a Venezia, in ostaggio agli austriaci.
ALLA SERA
Forse perché della fatal quiete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge
Victor Hugo – PRINTEMPS / PRIMAVERA
Voici donc les longs jours, lumière, amour, délire!
Voici le printemps! mars, avril au doux sourire,
Mai fleuri, juin brûlant, tous les beaux mois amis!
Les peupliers, au bord des fleuves endormis,
Se courbent mollement comme de grandes palmes;
L’oiseau palpite au fond des bois tièdes et calmes;
Il semble que tout rit, et que les arbres verts
Sont joyeux d’être ensemble et se disent des vers.
Le jour naît couronné d’une aube fraîche et tendre;
Le soir est plein d’amour; la nuit, on croit entendre,
A travers l’ombre immense et sous le ciel béni,
Quelque chose d’heureux chanter dans l’infini.
[Primavera – Ecco dunque i lunghi giorni, e la luce, e l’amore, e il delirio, / Ecco la primavera! Marzo, aprile col suo dolce sorridere / Maggio fiorito, giugno bruciante, tutti i bei mesi amici! / I pioppi, a riva dei fiumi addormentati, / si curvano dolcemente come grandi palme, / l’uccellino palpita in fondo ai boschi tiepidi e calmi: / sembra che tutto rida, e che gli alberi verdi / provino gioia ad essere insieme e a scambiarsi versi. / Il giorno nasce coronato da un’alba fresca e tenera; / la sera è piena d’amore; la notte par di sentire, nell’ombra immensa e sotto il cielo beato, cantare qualcosa di felice nell’infinito. (Traduzione temporanea mia, da Victor Hugo, Toute la lyre – Tutte Le Poesie)]
La ricognizione di tutto ciò che la poesia ha espresso sul tema della primavera è un gioco infinito, e qui è soprattutto un gioco, un percorso tra i molti … percorribili, nulla di magistrale o accigliato: lo dico per chi troverà questa selezione del tutto arbitraria (lo è), e il tragitto proposto accidentato e campato in aria (lo è, direi per vocazione). Dato lo spazio in cui ci stiamo muovendo, la rete, da cui non pretendiamo di dare lezione a nessuno, e che ha in sé una grande risorsa, la diffusione capillare e vasta, e il suo limite, l’impossibilità di restare a leggere su uno schermo a lungo, andrei a chiudere col solito metodo: non una chiusura col fiocchetto ma un bello strascico di versi, e arrivano finalmente le rondini!
Alfonso Gatto: PRIMAVERA
Gli alberi in germoglio
sott’acqua i ghiaieti
gettavano medaglie
sonanti di riviere
E nel fuso dell’aria
la tenera matita
della gioia accanita,
il tratteggio dell’acqua
che scende a gradinate
in quell’acqua lucente
e bozzoli farfalle
di sole nella rete
degli abissi di quiete.
Il freddo un luccichio
di bosco sottovento,
il pelo della gioia
nerissima che ride
negli occhi d’una donna
che s’affretta all’amore.
Dolcezza che non volta
a rincorrerla ardendo,
di smania la largura
improvvisa che cade,
il fitto l’accaglio
del miele velato
dell’acqua del verde,
il sole che miete
negli occhi il rovescio
dell’iride nera.
Alfonso Gatto: CANTO ALLE RONDINI
Questa verde serata ancora nuova
e la luna che sfiora calma il giorno
oltre la luce aperto con le rondini
daranno pace e fiume alla campagna
ed agli esuli morti un altro amore;
ci rimpiange monotono quel grido
brullo che spinge già l’inverno, è solo
l’uomo che porta la città lontano.
e nei treni che spuntano, e nell’ ora
fonda che annotta, sperano le donne
ai freddi affissi d’ un teatro, cuore
logoro nome che patimmo un giorno.
[Da POESIE]
Vincenzo Cardarelli: MARZO
Oggi la primavera
è un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi:
Verdi persiane squillano
su rosse facciate
che il chiaro allegro vento
di marzo pulisce:
Tutto è color di prato.
Anche l’edera è illusa,
la borraccina è più verde
sui vecchi tronchi immemori
che non hanno stagione.
Scossa da un fiato immenso
la città vive un giorno
d’umori campestri.
Ebbra la primavera
corre nel sangue.
[Da: Cardarelli, OPERE – Meridiano Mondadori a cura di Clelia Martignoni]
Philip Larkin – COMING / ARRIVA, 1950
On longer evenings, / Nelle sere più lunghe
Light, chill and yellow, / La luce, fredda e gialla,
Bathes the serene / Inonda le serene
Foreheads of houses. / Facciate delle case.
A thrush sings, / Canta l’usignolo
Laurel-surrounded / Coronato d’alloro
In the deep bare garden, / Nel profondo giardino spoglio
Its fresh-peeled voice / La sua voce affinata di fresco
Astonishing the brickwork. / Che fa meraviglia alla pietra.
It will be spring soon, / Presto sarà primavera
It will be spring soon — / Presto farà primavera —
And I, whose childhood / Ed io che ho avuto un’infanzia
Is a forgotten boredom, / che è stata una noia dimenticata
Feel like a child / Mi sento come un bambino
Who comes on a scene / Che arriva sulla scena
Of adult reconciling, / Di una riconciliazione adulta,
And can understand nothing / E non riesco a intender nulla
But the unusual laughter, / Se non una insolita risata
And starts to be happy. / Così comincio ad essere felice.
Philip Larkin – THE TREES / GLI ALBERI, 1967/1974
The trees are coming into leaf / Gli alberi stanno mettendo le foglie
Like something almost being said; / Come qualcosa detta per accenni;
The recent buds relax and spread, / Le gemme recenti si rilassano e si spargono
Their greenness is a kind of grief. / Il loro verde è una sorta di dolore.
Is it that they are born again / Dipende dal fatto che loro nascono ancora
And we grow old? No, they die too, / e noi invecchiamo? No, anche loro muoiono,
Their yearly trick of looking new / Il loro giochino di ogni anno di sembrare fresche
Is written down in rings of grain. / è messo nero su bianco nei cerchi di grano.
Yet still the unresting castles thresh / Eppure tuttora i castelli senza sosta lo trebbiano
In fullgrown thickness every May. / Quando è ben maturo, ogni anno a maggio.
Last year is dead, they seem to say, / Lo scorso anno è morto, sembrano dire,
Begin afresh, afresh, afresh. / Ricomincia e ricomincia e ricomincia.
[Traduzioni temporanee mie, ma c’è un volumetto Einaudi, Torino
2002– Collana Bianca, FINESTRE ALTE, curato da Enrico Testa].
Gianni Rodari, FILASTROCCA DI PRIMAVERA
[“Il secondo libro delle filastrocche” (Edizione Einaudi Ragazzi)].
Filastrocca di primavera
più lungo è il giorno, più dolce la sera.
Domani forse tra l’erbetta
spunterà la prima violetta.
O prima viola fresca e nuova
beato il primo che ti trova,
il tuo profumo gli dirà,
la primavera è giunta, è qua.
Gli altri signori non lo sanno
e ancora in inverno si crederanno:
magari persone di riguardo,
ma il loro calendario va in ritardo.
Gianni Rodari – VIVA LA PRIMAVERA
Viva la primavera
che viaggia liberamente
di frontiera in frontiera
senza passaporto,
con un seguito di primule,
mughetti e ciclamini
che attraversando i confini
cambiano nome come
passeggeri clandestini.
tutti i fiori del mondo son fratelli.
È uscito a settembre scorso il Meridiano Mondadori dedicato a Gianni Rodari, curato da Daniela Marcheschi, con un suo ricco saggio introduttivo: lo consiglio vivamente e in un prossimo numero di questa rubrica volante daremo spazio anche alla multiforme opera di Gianni Rodari, giocoso autore di storie fiabe e filastrocche per bambini e ragazzi, dunque autore serio, di provata caratura letteraria e intellettuale.
Chiudo una volta per tutte con dei versi sulla primavera, o meglio sull’attesa e sulla speranza di una stagione in cui finisca finalmente il freddo – più una stagione della vita che una stagione dell’anno strettamente intesa: sono di un nostro poeta incluso nell’antologia BRACI, LA POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA, appena uscita per Bompiani e curata, con acume critico e grande amicizia per la poesia e per i poeti, da Arnaldo Colasanti (anche a questo volume si darà spazio in qualche prossimo numero di questa sventata rubrica, anzi preannuncio che ci sarà qualche puntata dedicata non solo ad alcune più recenti antologie di poesia italiana e non solo, ma esplorerò, e spero vorrete farlo con me, anche alcuni testi relativamente recenti, non necessariamente tutti studi accademici, spesso saggi personali o personal essays di anglo-tradizione, che cercano di fare il punto sullo stato di salute della poesia). E ora spazio e largo ai versi di:
Alberto Toni (Roma, 1954/2019) – da Liturgia delle ore
Sperare nella fine di questo freddo
che non sopporto, con una
parola rivolta al cielo
– mentre cammino
per Roma – al Pantheon,
una felicità nascosta,
un fantasma dentro i pensieri
un ricordo che non ha tempo.
Sapessi davvero dare forma
al ricordo. Conoscessi la fermezza,
la giustizia di un momento d’oro.
Devo sperare nella fine di questo freddo.
[in BRACI, LA POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA
– a cura di Arnaldo Colasanti, Bompiani Marzo 2021]
Buona Primavera!
L’immagine in alto nella pagina è il dipinto del 1883 “Dante and Beatrice” di Henry Holiday