Sono molte, qui, le gioie da scoprire…
Maria Grazia Calandrone in SPLENDI COME VITA
trova una prosa ritmica e poematica, intima e civile,
che affronta un nodo familiare di valore specifico e
di respiro comune, ridefinendo un conflitto di tutti.
Ora che ti ho conosciuta, se te ne vai,
la vita che hai terremotato non ha frutto.
Quanti frutti può dare il corpo di un bambino?
Sull’isola dalla quale Mamma è atterrata,
Amore e Morte sono parenti di sangue.
Il terzo vertice della Trinacria è Onore.
[da SPLENDI COME VITA, Ponte alle Grazie, Milano 2021 –
gli ‘a capo’ qui sono miei, mi pare individuino un ritmo che c’è]
In questo nostro appuntamento, in cui (vi ricordo) d’ora in poi ci troveremo ogni due mercoledì, riprendiamo un tema che abbiamo già coltivato in alcune puntate: IL SILENZIO (peraltro titolo anche del libro più recente di Don De Lillo). E ci occupiamo (non è un “plurale maiestatis”: con quel NOI intendo proprio “io e voi”, “voi con me”) di Maria Grazia Calandrone, poeta molto nota e importante: del suo lungo lavoro su parola e ritmo però attraverso SPLENDI COME VITA (Ponte alle Grazie, 2021), suo recente approdo di scrittura. Il libro racconta la vicenda dell’autrice di bambina rifiutata: una prima volta dalla madre naturale, che schiacciata dalla povertà e dalla esclusione sociale, la abbandonò piccolissima in un parco al buon cuore di chi l’avrebbe trovata (fu un caso diacronica e di costume); una seconda volta dalla madre adottiva, madre duratura e mai abbandonata, ghermita all’improvviso da un senso di estraneità.
Fissiamo subito alcuni punti.
SPLENDI COME VITA è definito dall’editore “romanzo”,
è a conti fatti un lungo poema in prosa attorno alla MADRE.
“Quando Mamma gioca con me, sedute in fondo accanto
alla ringhiera, la città è ai nostri piedi e noi siamo più grandi
della notte stellata che ci contiene. Un bastimento carico di
eternità. Siamo alle fondamenta del mondo.”
“A Mamma piace molto rievocare il momento del nostro
primo incontro. Ne parla come di un innamoramento
subitaneo, fiabesco, reciproco e definitivo – e così lo racconta
anche a Maria Pia Fusco, che la intervista per “L’Espresso”.
Ecco la voce di Mamma, […] riconosco il suo tono, il suo stile
e il suo carattere: vivace, ricercato, sentimentale, intimo, pudico,
espansivo, stravolto, riservato, intemperante.
<<L’ho trovata subito incantevole fin dalla prima volta che l’ho vista,
quando cioè sono andata a prenderla all’Istituto. […] io e mio marito
[…] l’avevamo vista soltanto nelle fotografie sui giornali. […] era in
braccio a una delle assistenti […] mi sono avvicinata a lei sorridendo.
Confesso che mi sentivo commossa ed emozionata come non mi era
mai accaduto prima. Maria Grazia mi ha subito gettato le braccia al
collo, e ha cominciato a giocherellare con i miei capelli. Quando è
entrato mio marito e l’ha presa in braccio, gli ha fatto un sorrisetto e
gli ha battuto amichevolmente la manina sulla spalla>>.”
Maria Grazia Calandrone confessa di aver cullato a lungo la materia di questo libro, tutta la vita, ma di aver trovato il giusto tono e la forma congeniale per raccontarla finalmente, forse complici le speciali condizioni di vita imposte dalla pandemia, solo in un pugno di giorni centrali nello scorso giugno – in alcuni punti del libro troviamo l’annotazione precisa di quei giorni; cioè ha liberato dalla gabbia del silenzio la propria avventura, molto tribolata eppure viva e gioiosa, di figlia, almeno cinquant’anni dopo. Ha tenuto tutto a mente – diversamente da Valerio Magrelli che, per il suo GEOLOGIA DI UN PADRE (Einaudi, 2013), ha rielaborato una serie di materiali giunti a maturazione a causa della morte del padre ma creati e tenuti da parte un’intera vita: foglietti, post-it, pagine. Niente di tutto questo per Maria Grazia Calandrone che è stata “dentro” la propria Vita Con Madre col corpo con l’agire (tenacia pazienza accudimento distanza persistenza carità) e col pensiero – per riprendere anche le parole affettuose della sorerna amica Sonia Bergamasco.
“Sono figlia di Lucia, bruna Mamma biologica –
[…] lei appariva da ventinove anni nel teatro umano.
Sono figlia di Consolazione, bionda Madre elettiva,
da me fragorosamente delusa.”
“Sotto i letti, massimamente. Le ombre si accumulano
in maniera massiva sotto i letti dei bambini non amati.
È un umido risucchio catacombale, nel quale fruscia il
vuoto artiglio del Nulla, pronto a scattare e chiudersi
sulle tenere carni. Un vivaio verminoso.
Se ti muovi, ti vedono.
Ognuno gira nudo e solo sulla ruota siderale degli esposti,
tanto più nudo e solo quanto più imbozzolato nella concre-
zione rasposa delle coperte.
Sei abbandonato e solo.
Se ti muovi, ti vedono.
Il Disamore avvolge i letti dei bambini tra le spire di un
pianto non pianto. I bambini non amati non piangono.
Chi chiamerebbero col loro pianto?”
In questo poema in prosa ci sono almeno due tipi di dettato, e di scansione ritmica.
C’è la tipica scansione poematica che sempre ho notato nella poesia, nella vera e propria scrittura in versi, della Calandrone: un dettato ritmico e persuasivo, forte e delicato, emerso sempre in modo nitido nelle molte letture tenute dalla Calandrone dei propri testi poetici, letture limpide, scandite.
C’è l’altro dettato, narrativo e oratorio, potente e suasivo, più prosastico dopotutto, che appartiene alla scrittura civile, al resoconto sociostorico, nei passaggi del libro che raccontano la giovinezza ribelle di Maria Grazia, la sua avventura del mondo, lontano dalla Madre.
Due registri che dopotutto coincidono con le due anime del libro: il poema in versi che celebra la grazia di essere stata accolta da Madre e Padre, la prosa civile in cui identità personale e ribellione pubblica esorbitano dalla cronaca familiare per incrociare la Storia: il ’77, gli anni ’80, ecc. Le fibre di questi due filoni che si intrecciano e gareggiano tra loro nell’esplorazione della vita si sottentrano reciprocamente. E poi al fondo di tutto si avverte una precarietà, un ondeggiamento rischioso, una instabilità connaturata, un’assenza di confini e punti saldi che non è solo di questa creatura con questa storia così tortuosa e dopotutto fortunata ma punteggiata di grandi e piccole crisi, ciascuna incisiva, graffiante, dolente, ma è anche di tutti noi. Questa condizione che è di tutti è resa acuta da fatti e dettagli personali drammatici ma invece di escluderci come fossimo estranei curiosi di dati di cronaca golosi ci rende partecipi e ci chiama a un riconoscimento e a una resa che ci coinvolga.
“Quando madre mi chiama per nome, usa il mio nome
in tutta l’estensione. È una forma di rispetto professionale,
e per ciò dolorosa, nei confronti di chi l’ha scelto per me,
la (da lei) cosiddetta Mamma Vera. Quando Madre mi
chiama col nome completo mi spavento.
Maria Grazia, non sta bene fissare* le persone che mangiano,
le costringi a offrirti qualcosa.
(Lo so!)
Maia Grazia, guarda fuori.
È sempre lo stesso panorama, preferisco leggere.
Questa risposta verrà assunta, più avanti, come prova del mio
scarso interesse per il mondo.”
*[Minuscola notazione mia: in “Umiliati e offesi”, Fjodor Dostoevskij mostra un vecchio malconcio guardare un ricco signore con uno sguardo fisso, sdegnato, l’ultimo o quasi scoccato dal vecchio prima di abbandonare il mondo, appena preceduto dal vecchio cane – uno sguardo che chiama a una responsabilità: di chi è ben messo per chi è mal messo, un reclamo non per invidia di diversa sorte, ma (come sempre in Dostoevskij) per mancata cura, per scarsa attenzione, per colpevole egoismo, per scarsa deontologia umana. Questo passo mi ha richiamato con prepotenza quello.]
“Al Kursaal di Ostia, Madre mi tiene alta come un trofeo.
È l’estate del 1965, Madre mi ha adottata da pochi giorni.
Il mare fa bene alla bambina. Madre ha la pelle chiara, al
mare si scotta. Sulla sabbia è vestita da città, con due giri
di perle, l’orologetto d’oro della laurea, i sandali bianchi
col tacco affondati fin quasi alla caviglia nello sforzo di
sollevare il mio piccolo peso, la messa in piega tutta spettinata.
Madre non è sportiva. Madre ha il sorriso pieno di gioia.
Madre si aspetta tutto dalla vita.”
“In quegli anni, le persone che vengono rapite hanno
nomi strani: Sutter, Getty, Mirko Panattoni. M’immagino
che vengano punite a causa del nome. Mamma*, possiamo
cambiare il tuo nome?
*[passaggio da Madre, nominazione del personaggio-madre, a Mamma, acquisizione d’affetto, nome d’amore; il nome della madre è Consolazione: vivo timore che esso susciti punizione e perdita – ndr].
Quando il disco di Cappuccetto Rosso arriva al punto dove
il lupo muore, provo dolore. Mamma dice che, invece, bisogna
avere il coraggio di estirpare il male.
Su “Paese Sera” vedo la foto di Renzo Danesi e, con l’aria di chi
la sa lunga, dico a Mamma che è proprio carino. Danesi è uno
dei componenti della Banda della Magliana. Mamma osserva,
preoccupata La bambina è attratta dai delinquenti.”
“Padre è alto e grande, è bellissimo. Gian Maria Volonté.
La classe operaia va in Paradiso. Col cappotto di lana, il
completo grigio chiaro, il colbacco portato da Mosca,
risponde: Appendilo al cesso!, al liceale in giubbotto di
pelle che a Ponte Lungo gli offre un volantino del Fronte
della Gioventù. Non gli importa che quello ha quarant’anni
meno di lui. Padre è democratico. Gli faccio eco: al cesso!
Sempre senza cravatta, penna a sfera (blu) nel taschino,
camicia a maniche corte nei pantaloni, cinghia stretta e
colletto sbottonato. Nella leggenda famigliare, Alessandro
Natta regala a Padre una scatola di magnifiche cravatte in
seta, perché Padre continua a presentarsi in Parlamento a
collo nudo. Il suo corpo occupa lo spazio disponibile. Quando
Padre batte a macchina, la scrivania azzurra – questa, che in
una notte che dirò è diventata mia – si riempie di fogli. La sua
bella scrittura oblunga. Padre viaggia il Mondo. Quando è fuori,
ogni sera prima di cena arriva una telefonata. La linea è spesso
disturbata, come piena di vento. Ogni mattina Angelo, lo zufolante
portalettere di quartiere, recapita una cartolina, da terre remote
come astri: India, Brasile, Africa. Padre è il mondo. Colleziono i
paesaggi che i suoi occhi vedono. Papà, li metto in ordine. Il tuo
mondo è la mia Collezione Privata.”
Questo padre importante è un eroe civile, una potenza di pensiero e coerenza – il modello cui Maria Grazia ha formato una visione del mondo, e una timida, direi gentile, e partecipe, decisa curiosità per il mondo, contro ogni errata previsione materna, che le fa superare gli aspri conflitti interni nel rapporto improvvisamente drammatico con la madre.
Questo è il vero nucleo del libro che però lascio alla scoperta dei lettori.
Ciò che qui mi preme segnalare è la felice chiave di scrittura trovata dall’autrice nel campionare enucleare e catalogare i fatti salienti di una vita, di una convivenza mai interrotta del tutto nemmeno quando dall’altra parte c’era un muro ostile, ricostruzione guidata dal sentire e dalla indagine su quel mistero che si chiama Madre, “trovando”, torno a dire, il linguaggio che possa racchiuderlo e offrirlo al cuore.
“Trovando” inoltre una forma.
Che sembra “trovare” (di nuovo) la prosa poetica come passo successivo alla versificazione in cui intanto avviare la macchina narrativa, per poi mantenersi in bilico tra poematicità e andamento prosastico, passando attraverso una campionatura (di nuovo) nominale che non è mai astrazione ma indicazione meno che enfatica degli attori e delle azioni del romanzo di una vita intessuta dei drammi di molte vite. E infine “ritrova” un andamento, stavolta sì, in versi, che è un “ritrovarsi” e ha gli accenti della scoperta e della preghiera.
Il risultato di tutto questo è un tessuto leggero che si incide in noi perché tira dentro tutta una serie di dettagli storici e di cronaca che ci accomunano, anche in senso generazionale, alle esperienze dell’autrice, per snidare quel destino che tutti noi attraversiamo, collezionando dolori entusiasmi delusioni perplessità tragedie, in genere con scarsa intelligenza delle profondità visitate.
Per darvi un’idea di cosa intendo (per indicare meglio in cosa consista questa “traduzione” che è la letteratura quando non tradisce l’autenticità dei fatti e del loro senso e “trova” COME comunicarla) vi riporto questo passaggio – uno dei molti, praticamente tutti, che la rendono al meglio:
“L’aria del Collegio è satura di depositi ormonali, acri
e violacei come aceto madre. Nel basso, si avvoltola il
serpe lanceolato e squamoso dello sconforto, sublimato
dal canto e fatto ascendere sotto forma di gaudio dell’al-
tresì auspicata dipartita dal bruto mondo. Un grigiolatteo
malcontento biologico, traslocato nell’alto dei cieli, si aggira
ovunque. Lo sento trascinare i piedi, nei piedi calzati di
pianelle in feltro (generalmente cineree). Lo strazio ormai
denaturato di non essere e l’ambiguo piacere di molestarsi
il corpo con zibaldoni di cattivo gusto.”
Questo libro si legge d’un fiato non perché sia “scorrevole” ma perché ci tira dentro un’idea di umanità che è quella che abbiamo tutti nel fondo di noi ma che richiede grande forza. La forza di non tener conto della disperazione, di non cadere nella sua trappola, ma di vincere su di essa con una autentica rivoluzione, che è banalmente l’amore per l’altro: un nostro affetto o estraneo.
Al punto di accettare di difendercene per ricondurlo in un luogo in cui ci si torni a riconoscere.
Fotografia di Chiara Pasqualini