[…]
The question, O me! so sad, recurring—What good amid these, O me, O life?
Answer.
That you are here—that life exists and identity,
That the powerful play goes on, and you may contribute a verse.
(Walt Whitman, LEAVES OF GRASS)
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Che bello che questo tempo
è come tutti gli altri tempi,
che io scrivo poesie
come sempre sono state scritte,
che questa gatta davanti a me si sta lavando
e scorre il suo tempo,
nonostante sia sola, quasi sempre sola nella casa,
pure fa tutte le cose e non dimentica niente
– ora si è sdraiata ad esempio e si guarda intorno –
e scorre il suo tempo.
Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà,
che bello che non siamo eterni,
che non siamo diversi
da nessun altro che è vissuto e che è morto,
che è entrato nella morte calmo
come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto
e poi, invece, era piano.
[da Poesie di Claudio Damiani, a cura di Marco Lodoli, Fazi Editore, Roma 2010]
Parlare di Claudio Damiani vuol dire parlare di una poesia che coglie l’essenziale valore della vita, umana e non solo, di una poesia che si serve di ogni forma per dare corpo ai corpi vivi, senza mai distrarsi dal procedimento cardine del poetare: il metodo della semplificazione algebrica che porta fuori, come si dice quando si risolvono le equazioni, l’incognita che è poi la questione capitale di una indagine – la vita nella sua totalità, qui vero nocciolo della faccenda. Vuol dire anche ricollocare l’io, preservarlo dallo scivolamento nel lubrico lirismo e farne il focus di una ellisse in cui il discorso poetico pone di continuo l’intesa dialogica come metodo e la corrente tra IO e TU come veicolo di progresso. Però credo che intanto si debba lasciare la parola a lui:
Noi qui in avamposto
siamo stati messi,
soldati un po’ speciali
un po’ ingegneri, un po’ filosofi.
Stiamo in guardia
ma nell’intento dei capi
stiamo in attacco,
siamo qui messi per capire cose
che nessuno ha capito,
siamo gettati come da un aereo
senza paracadute,
dobbiamo cadere in piedi,
trovare l’equilibrio
per non cadere,
dobbiamo trovare il segreto,
cadendo, per non cadere.
E se cadiamo
nessuno sa niente di noi.
I nostri morti vengono portati via
alla chetichella, all’insaputa di tutti,
bruciati in appositi forni.
In effetti essendo agenti segreti [i poeti, ndr]
nessuno sa niente di noi,
nemmeno noi sappiamo quello che dobbiamo fare,
infatti, più che fare, dobbiamo non fare,
infatti passiamo la gran parte del tempo
a non far niente,
eppure le giornate passano e non sappiamo come,
come se facessimo mille cose, e a noi ci sembra di farle
ma non le facciamo.
Siamo soli, non possiamo parlare con nessuno,
siamo qui da un tempo indefinito,
abbiamo perso la cognizione del tempo.
A volte capita, per un puro caso,
che intercettiamo qualcosa
e lo registriamo automaticamente
senza pensarci, distrattamente.
Abbiamo una quantità impressionante di macchine
ma abbiamo il dubbio che ci servano veramente a qualcosa.
Noi non abbiamo avanti che cielo, sempre cielo,
il sole ci bacia e la brezza
ci vellica le guance,
il vento muove le nostre pagine
e i nostri giorni volano.
Questo testo senza averne l’aria è una dichiarazione di poetica, l’enunciato della posizione del poeta – perché sempre preme una domanda, urge e brucia un interrogativo: cos’è la poesia, o COSA È poesia. Altrimenti detto, QUANDO si dà poesia. La prima grandezza di Claudio Damiani è la naturalezza del suo fare poesia, vedersi poeta dentro la natura, uomo tra i viventi, e sostare, più che con stupore, con l’intento di comprendere, sulle domande naturali, al cospetto della vita nelle sue molte forme, per trovare ad ogni quesito non tanto la formulazione che possa spalancare piste verso una soluzione quanto il luogo e il soggetto che ogni volta situi la domanda, la rivolga con innocenza smagata, e la incornici nel contesto che schiuda sempre un’occasione di speculazione sensibile. La poesia di Claudio Damiani lavora su un linguaggio che è esso stesso sviluppo e posizione, insiste su elementi che vanno alla radice dell’essere umani, al grado zero dell’esser vivi come tutti i viventi. Questo lo porta ad inscenare alcune sorprendenti prosopopee in cui gli alberi e l’amato monte Soratte o il gatto e addirittura il sole sono chiamati a parlare, a svelarci cosa loro colgono della vita: che è tempo che scorre ed è cielo azzurro così intenso che sembra qualcuno gli abbia dato molte mani di colore ed è brezza che bacia le gote e sfiora i volti Il cielo è un diritto, dice Claudio Damiani, è un diritto umano ed è pure un diritto alla salute. È uno specchio di volo libero che è steso sulla Terra, la lambisce, ed è trasvolato dalle rondini che diversamente da noi, condannati a aderire al suolo, e dagli alberi, piantati nella crosta, si spostano con sguardo dinamico e un piano di volo sulle grandi distanze. Non è come potrebbe sembrare, questa poesia, l’enunciazione ennesima del mistero della vita e della morte, del rapporto col tempo come schiavitù in una condizione esistenziale sentita come limite e dolore, ma è la chiara dichiarazione del miracolo della vita. E non siamo, con la poesia di Claudio Damiani, immersi in una prevedibile opacità esistenzialistica, ma siamo nel paradiso [anche le cose che sono appartenute / alle altre donne, a altri animali e a altre cose / che sono state e saranno / anche quelle le bacio, anche quelle mi sono care / e sono davanti a me ora, come un giardino, / un paradiso di tutte le bellezze / io le vedo tutte, una per una, e una per una le bacio] – in quei cieli celesti del titolo, tolti da un testo del caro Beppe Salvia che gli è stato compagno di strada negli anni Ottanta nella rivista Braci, e in quell’empireo miltoniano rimpianto da Satana, ex Lucifero, che è tutto “luce celestiale” [quasi mi brucia la sua luce], dunque è visione più che musica o armonia celeste come apparve a Dante. Questa poesia è – Damiani lo lascia trasparire – legata a tutta una tradizione però non tanto perché leggendola nel suo tessuto si può fare il solito gioco di indovinare certi echi di Eliot o di Leopardi o di Lucrezio ma perché la sua formulazione, nel modo e nella funzione, è gesto naturale e spontaneo esattamente come sempre dai tempi dei tempi, come vocalizzazione umana del sentire e del capire [… caro Damiani, come è consuetudine con i nostri intervistati, le poniamo subito la domanda di rito, che poi è quella essenziale, anzi l’unica domanda (…): al punto della vita in cui lei è giunto, ci dica, in poche parole, cosa ha capito]. E la naturalezza di questa poesia sta anche nel suo prendere ogni possibile forma – di epigrammi, e di poemetti, o di prose e dialoghi. Il dialogo è proprio funzione di speculazione filosofica e luogo di verifica della scienza che da millenni ci accompagna nella nostra avventura di viventi offrendoci tutti gli elementi (i quattro elementi fondativi invocati dai presocratici) e quella visione sistemica in cui tutto è “correlato” cioè “in relazione a” tutto secondo la magica formuletta E = mc2. E poi la poesia di Claudio Damiani è una poesia (mai vista una poesia così) che ti spiazza e ragiona, che è genuina e nodale nel suo dettare e darsi la propria forma, in cui pensiero e parola sono sposi perfetti, che ti coglie così nel profondo che un momento ti lasci accarezzare da una quieta ironia e ridi, o tu che leggi, e il momento dopo ti travolge la commozione e piangi. Nel poemetto di recente uscita, Endimione (Interno Poesia 2019), ritroviamo poi un altro filone aureo della poesia di Damiani, i frammenti di un discorso amoroso che permeano tutta la poesia pubblicata fin qui dal “nostro”, “spalleggiato” dagli ex-erga tratti da Giovanni Boccaccio, Cicerone, naturalmente John Keats (autore di Endymion), e da Lorenzo Calogero [L. C. non è stato in campo di concentramento come Celan, non ha conosciuto, come Celan, Cioran Gadamer e Heidegger, ma io penso che sia al suo livello, uno dei più grandi poeti del ‘900. Lo penso da tanti anni, feci la mia tesi di laurea su di lui nel 1982, e ne parlai a lungo con Amelia Rosselli, che si considerava sua allieva. Penso anche che il fatto che sia così poco conosciuto, e riconosciuto, in Italia, sia il segno della nostra miseria, e decadenza. Claudio Damiani]
“Ogni forma che giunge all’essere è un’aggregazione di elementi ( i quali sono, a loro volta, forme) e queste forme sono “formose” appunto, cioè belle “[è vero, Damiani ha ragione, c’è molta bellezza, siamo circondati dalla bellezza]. “Tutti gli esseri, cioè gli esistenti, sono belli, in quanto forme, e in quanto belli, sono SACRI” (il maiuscolo è mio). “Dunque ho capito questo, che tutti gli esseri, in quanto forme di elementi a loro volta forme, sono SACRI, e ETERNI” (maiuscolo sempre mio), “e dobbiamo rispettarli” [da Cieli celesti, Fazi Ed Roma 2016].
Ho fatto questo sogno: baciavo Domitilla
piccola che dormiva, baciavo Giovanni
anche lui piccolo che dormiva, e Antonio
anche lui piccolo, e uscivo fuori nella mattina chiara,
l’aria era bianca, e il cielo azzurro limpido
e respiravo l’aria trasparente
e fresca e su, sempre più su salivo
fino al colmo del monte, e poi un po’ mi riposavo
e poi prendevo per una stradina bianca
in una valle dietro che non avevo mai visto
e quanti fiori di spinalba e rovo,
quante siepi fiorite di prugnolo
e rosa. I fiori li prendevo a mazzi
e dicevo fra me: tutti per te,
tutti per te questi fiori!
e li baciavo, e in questa via scendevo
fiorita e bianca, sempre più bianca e aulente
fino a che le immagini si sfocavano
e come un sonno mi prendeva, sempre più forti gli odori
dei fiori e l’aria e mi addormentavo
pur continuando a camminare. E mi svegliavo
pensando: ho sognato la mia morte, ecco,
magari me ne andassi così,
magari fosse questo
il mio ultimo giorno.
Un altro luogo che Claudio Damiani, poeta che non teme le ripetizioni perché per lui non di pleonasmi si tratta ma di sottolineature di valore definitorio, un altro spazio per lui di rivelazione di quanto di più profondo gli riesca concepire poeticamente è il sogno. Il sogno è anche finalmente la bolla (per usare un termine social-mediatico) dove ritrovare la propria gente, tutti coloro che prima di noi sono venuti al mondo per (direbbe qui Sandro Veronesi) preparare la rincorsa che ha portato noi a stare qui ora – come accade in L’isola natante, poesia-sogno in cui Claudio Damiani incontra suo nonno Leone e diversamente da Enea con suo padre Anchise nell’Ade riesce ad abbracciarlo, e poi stringe mani, di tutti quelli che nelle generazioni li hanno preceduti, ma il vero prodigio è ciò che accade il giorno dopo (col calar del buio si rivedono l’indomani), e qui entra in scena un elemento swiftiano: come in Gulliver’s Travels c’è appunto quest’isola che “anziché star ferma / si muove come galleggiasse sull’acqua”, ma poco dopo “guardando sulla riva mi sembrava che l’isola si fosse fermata”. Ma Leone Damiani lo mette sull’avviso: “L’isola non cammina, / è il tempo che si muove, e così nel tuo sogno / l’isola che si muove significa il tempo. Quello che devi sapere è questo: questo tuo sogno è vero! / Noi siamo tutti uniti. Quando tu morirai / ci ritroverai tutti qui, ognuno che hai conosciuto / lo rivedrai uguale, e questa terra a te cara / la ritroverai intera. Tanto più l’avrai amata, / tanto più la ritroverai identica, / tanto più l’avrai sentita come tua patria, / tanto più sarai vicino ai padri”. Un’idea, questa della continuità, che, mentre non sconfessa l’assunto schopenhaueriano della vita biologica che attraversa tutti gli individui viventi (ciascuno simile a tutti ma in proprio unico e irripetibile, dicevano i Romantici), tende a stabilire in un unico ponte di generazioni che trascorre in un immenso tempo presente: “Ma dove andiamo?”-“Andiamo verso qualcosa che è sempre qualcosa / non esiste la fine, perché, vedi, / siamo tutti collegati. (…) il tempo (…) è il collegamento / cioè l’essenza stessa temporale / del nostro esistere è alla base / del nostro essere collegati (…) è come se ci dessimo tutti la mano / (…) nessuno ce la può staccare / è questo il punto, capisci?”–…a proposito del “capire”, la domanda senza risposta da cui siamo partiti, che incontra la forma del suo rovescio solo nell’attraversamento, nell’esperienza, e nella sua osservazione, armati di poco ma nel profondo, senza paludamenti, dismessa l’armatura e tenuta la giusta distanza, conosciamo. Concludo dicendo che la naturale semplicità di dettato che da sempre è il marchio di fabbrica della poesia di Claudio Damiani ha la sua origine in una placidità di atteggiamento che fa di lui poeta libero da ogni fretta espressiva, lo porta a prendersi tutto il tempo senza asciugare come dicevo le ripetizioni ma anzi accomodandosi in esse, e a praticare la suasività dell’epicureo.
Foto: Claudio Francesco Pio / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)