Tiny non deve morire

Quando scrivi il best seller natalizio di tutti i tempi, pensa a bene a come lo fai finire...

Quando arriva alla fine di A Christmas Carol (Canto di Natale) di Charles Dickens il lettore s’imbatte in una frase che sembra buttata lì quasi a caso: “Tiny Tim, who did NOT die”. E tira un sospiro di sollievo.

Fortunatamente, perché il burbero Scrooge si converta, non c’è bisogno che il piccolo storpio e malatissimo figlio del povero impiegato Bob Cratchit muoia nella realtà per la sua miseria. Basta che lo faccia nella dimensione parallela che gli viene mostrata dallo spirito del Natale futuro. Questo permette allo scrittore di terminare il libro con una battuta rassicurante per tutti i lettori: “And so, as Tiny Tim observed, God Bless Us, Every One!”

Secondo la ricostruzione che viene fatta nel film Dickens – L’uomo che inventò il Natale (The Man Who Invented Christmas, un film del 2017 diretto da Bharat Nalluri) nella sua mente invece il piccolo Tiny Tim “doveva” morire. In effetti la mortalità infantile era altissima nell’Inghilterra del 1843, quando il racconto venne scritto. Basti pensare che nel 1839 quasi la metà dei funerali celebrati a Londra furono quelli di bambini di meno di dieci anni, uccisi da malattia e malnutrizione. Diversi piccoli parenti dello scrittore erano morti senza raggiungere la maggiore età e il trattamento che lui stesso aveva subìto nella sua infanzia non lo spingeva certo a considerarla un’età felice.

Del resto in The Old Curiosity Shop (La Bottega dell’antiquario) uscito nel 1841, appena due anni prima, aveva fatto morire la quattordicenne Nell, nipote del vecchio antiquario. Anche qui c’è un personaggio di rara cattiveria, Daniel Quilp, padrone di diversi negozi che gestisce con un ragazzo, un servo che malmena e bastona in continuazione.

Che sia una leggenda oppure no, nel film sono le persone intorno a Dickens, che lo ascoltano leggere il suo manoscritto, a convincerlo che Tiny Tim non deve morire. La sua tata irlandese, per esempio, e soprattutto il suo agente, che dice qualcosa tipo: «Se muore il piccolo Tim, non ha più senso». E Dickens furioso risponde: «Grazie John per avermi ricordato perché non chiedo mai la tua opinione sul mio lavoro, non ho più bisogno dei tuoi servigi». Insomma il grande autore reagisce come qualunque scrittore al quale viene detto da un editor oppure in una scuola di scrittura creativa come la Scuola Genius che qualcosa nel suo lavoro non funziona.

Eppure, Tiny Tim (come Misery di Stephen King) non deve morire. Certo la condanna della società inglese del tempo sarebbe stata più forte, la satira sociale più feroce, la violenza della denunzia più realistica, ma se fai morire Tiny Tim a Natale scordati di diventare un best seller sotto l’albero e accanto al presepe.

Ci scommetto che Canto di Natale sarebbe finito tra i tanti capolavori di Dickens, ma non avrebbe avuto il successo senza confini che continua ad avere da 176 anni. Lui stesso se ne rese talmente conto che la parola “non” nel testo originale inglese è scritta in maiuscolo: “NOT”.

Almeno oggi Tiny Tim NON muore. Buon natale, insomma.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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