Conosco Daniela Matronola da diversi anni, abbiamo condiviso riviste e avventure letterarie. Così, quando fa capolino con una nuova opera (che sia racconto, romanzo, traduzione, critica su rivista, poesia), ho sempre voglia di discuterne con lei. Ora ha dato alle stampe un nuovo volume di poesie, Tempo tecnico, che segue a un anno di distanza Melamangiai, entrambi pubblicati da RPlibri. È l’occasione buona per farle qualche domanda.
Le poesie di questa nuova raccolta sono state concepite in modo diverso da quelle che abbiamo trovato in Melamangiai, o almeno mi pare. Qui c’è una preferenza per una fila di versi brevi, e più – se mi perdoni la nota da lettore medio – freddi. Anche questo è Tempo Tecnico, forse. Oppure mi sbaglio io?
È vero. Tempo Tecnico è altro libro rispetto a Melamangiai. I due libri sono stati lavorati diversamente. Per Melamangiai ho seguito un criterio compositivo di tipo cronologico, per Tempo Tecnico ho avuto davanti a me un materiale meno lineare che ho dovuto del tutto riorganizzare, del quale ho dovuto io stessa rintracciare soprattutto l’andamento: c’era dentro un bandolo che dovevo io per prima intravedere e seguire come un filo d’Arianna. Dopo averlo visionato a gioco fermo, ne ho “visto” il senso sotterraneo e ho potuto agire sul materiale, ‘raggrupparlo’ come ora appare organizzato, individuandone anche le sezioni. Tu parli di versi freddi, io li definisco asciutti. È una poesia asciutta. Tempo Tecnico, il titolo, sta per almeno due cose: 1) un tempo di riflessione, una pausa, dentro cui avere modo di guardare e capire; 2) un tempo, il nostro tempo, nel quale la tecnica e di sicuro il tecnicismo hanno preso il sopravvento, e noi siamo tutti un po’ meno umani. I versi saranno anche freddi, ma a me paiono obiettivi, c’è una scrittura più asciutta, senza cascami o lirismi. Forse.
Essere esclusi o essere rifiutati, nella vita come nell’arte. Questo è il tema che apre il tuo lavoro e lo percorre, lo chiude addirittura con una particolare visione: il tempo che ci libera della nostra identità e ci riprende includendoci.
È abbastanza paradossale ‘essere rifiutati’’, cioè che qualcuno creda di poter tagliare fuori qualcun altro. Stare al mondo è di per sé esserci, occupare uno spazio e coprire un tempo. Come si fa seriamente a pensare di negare cittadinanza a chi ce l’ha per il fatto semplice di esistere. L’assurdo è che, come diceva Wystan Hugh Auden in The Refugee Blues, Yet there is no place for us (Eppure, non c’è posto per noi). L’ovvio e inalterabile destino umano è, invece, il nostro anno-masso / spinto e trascinato per il nuovo giro // noi sisifi felici / noi atlanti con spalle forti // prima che il tempo ci riprenda / e dentro al tempo ci riporti.
Raccontare è sempre ricordare, scrivi. È una liberazione o una condanna?
È un superamento!
Molte di queste pagine sono dedicate al rapporto dello scrittore con la scrittura, mi pare una tendenza della narrazione contemporanea (e non solo). È davvero così importante interrogarsi su cosa sia scrivere, su come influisca sulla vita?
In verità, tutta la nostra conoscenza è di natura linguistica, il che include la formulazione del discorso, dunque il lavoro sul testo, in senso specifico ma anche in senso ampio. Di sicuro la formulazione è un tema cruciale che riguarda tutti, nel caso della scrittura sia chi scrive sia chi legge. La questione è filosofica, cioè esistenziale. Gli oggetti della nostra conoscenza del mondo e di noi prendono corpo quando vengono formulati, questo li fa esistere e li rende decifrabili, interpretabili, comprensibili. E diventano in questo modo patrimonio comune, tesoro condiviso. Analizziamo e formuliamo il discorso e il silenzio, la musica e l’armonia o la loro assenza.
Ci sono dei versi dedicati alla tragedia di Rigopiano, altri citano il processo di Rubin Carter detto Hurricane, l’omicidio di Lennon, in che modo la cronaca entra nelle tue poesie? Si intromette forzandole oppure ne fa parte di diritto?
La scrittura è anche esercizio di stupore. È testimonianza e memoria. Davanti alle immagini di Rigopiano e al racconto terribile di quella trappola di ghiaccio io ho pensato subito al Prologo dei Canterbury Tales di Sir Geoffrey Chaucer, quando il poeta celebrando il clima che cambia nel passaggio dall’inverno alla primavera canta la neve che ricoprendo la terra ha protetto i semi silenti permettendo ai germogli e alle gemme con i primi caldi di nascere a nuova vita. T S Eliot canta la frattura della crosta di ghiaccio drammatico come lo schiudersi del guscio d’uovo: in Aprile, così Aprile è un mese crudele. La cronaca che entra nella poesia obbedisce a un meccanismo naturale per il quale ciò che accade è sempre strumento di racconto. Ciò che costituisce la cosiddetta realtà è il mirabile serbatoio di trame e immagini, la cornucopia di meraviglie che accende lo stupore del poeta.
La Compagnia delle Amiche e la compagnia degli amici. Nel caso delle donne, scrivi le iniziali maiuscole, per i maschi usi le minuscole. C’è una differenza di nobiltà tra l’amicizia maschile e quella femminile?
Nessuna differenza di nobiltà, semmai di circostanze. La Compagnia delle Amiche è una chat, la compagnia degli amici è la definizione comune di un raggruppamento comune, e non un titolo come indica l’uso delle maiuscole.
Scrivi: “È un curioso orfanaggio lo stato di chi sta al mondo senza amore” in una poesia che mi pare raccogliersi intorno alla sensualità dei gatti. A che punto è l’amore?
L’amore è il motore del mondo. Senza amore non c’è vita ma solo sopravvivenza.
“Due del secolo scorso presagirono il tramonto della parola”, insomma è finita la possibilità di parlare, oppure soltanto il Novecento?
Il Novecento si è concluso ma noi stiamo ancora godendo degli sviluppi del Romanticismo, epoca che ha segnato il nostro scivolamento nella decadenza, nel nostro ellenismo.
C’è anche una poetica del sottrarsi. Credi di essere riuscita a non restare intrappolata?
Penso di aver tentato di stare a distanza di sicurezza. Ma chi di noi è in salvo dall’essere coinvolto? Per esempio non mi sottraggo a una delle funzioni che per me ha la poesia: la critica. C’è un saggio di Oscar Wilde, Il critico come artista, e anche nella Prefazione a Il ritratto di Dorian Gray, in alcuni degli aforismi centrali, Wilde non nomina né il poeta né il narratore ma il critico, segno che per lui lo scrittore è un critico, cioè è qualcuno che prende posizione e non si sottrae alla sua funzione più alta, che non è giudicare ma è valutare per capire e indicare, e poi esaminare, analizzare, descrivere. Certo il critico come artista ha anche un destino gramo, da Cassandra, si rende odioso in quanto portatore di rivelazioni, è giudicato male e ostracizzato perché non solo non si sottrae ai propri compiti ma non tace! Si permette di non tacere, di parlare per rivelare, e indicare. La critica riguarda il proprio tempo soprattutto, ma anche la stessa letteratura, la stessa poesia, la scrittura, anche per questo spesso la scrittura diventa oggetto di poesia.
Quale speri sia il destino delle tue poesie oggi che sono inserite in gran parte in queste due antologie? E della poesia?
Mi permetto di obiettare che questi due libri non sono due antologie ma sono due raccolte concertate con criterio, con un timone di senso. Il destino di un libro comincia sempre col comporlo e pubblicarlo, col farlo esistere. Mi pare che il cammino sia difficile. Lo è anche per la poesia in generale. Ma la sorte delle opere è affidata al vento, ai mulinelli, agli spifferi.