Mentre eri lì in quel salone vasto e polivalente, sotto lo sguardo occhiuto dell’enorme Schifano sulla parete principale, frontale ai finestroni che ancora, nonostante l’ora tarda, lasciavano filtrare della luce meridiana, ti facevi anche un po’ i cazzi del tuo amico sulle sue cose, sapete, i libri in cantiere, i pezzi vari di cinema, di musica, di letteratura che sventagliava via fax fra periodici e quotidiani al ritmo forse di due o tre a settimana. Lo ammiravi e un po’ lo invidiavi per la sua fortuna editoriale, per i suoi incarichi prestigiosi in enti e fondazioni e case editrici che dovevano fruttargli bei quattrini, per le sue amicizie fra artisti e scrittori, per il suo potere, per tutti quei libri omaggio che riceveva, che tu idealizzavi allora, – ma come si può invidiare un padre che ti ha fatto esistere, che ti ha incoraggiato con la scrittura, mica caramelle! Per te il tuo maestro in quegli anni era la luce, colui che presto ti avrebbe permesso di pubblicare la tua opera prima, che chissà che terremoti avrebbe scatenato nelle patrie lettere, perdio, ne eri assolutamente certo, era solo questione di tempo… E quindi tu scrivevi, scrivevi, quando potevi e quando non potevi, oltre a leggere avidamente i libri che il tuo maestro ti consigliava e altri che stuzzicavano i tuoi gusti, prendendo quasi alla lettera quel precetto forse di Hemingway, scrivete dove potete, con gli strumenti che avete, ecc. – per diventare un giorno un vero scrittore, cioè un uomo libero, indifferente ai permessi con recupero e al cartellino, e a tutte le altre menate della banca. Certo, anche la famiglia, la vita coniugale, borghese, che conducevi ostacolavano non poco verso quell’immagine puramente utopica e mentale del vero scrittore che si era sedimentata nel solco dell’esperienza, ma di più della letteratura, dei libri che avevi masticato negli anni. Il vero scrittore, il vero artista, doveva essere libero, libero a 360 gradi, libero nella mente, nel corpo, nel cuore. Se il tuo maestro era fin troppo rispettoso e avaro di consigli in campo letterario, tanto più lo era sulle faccende personali, private. Almeno a quei tempi. Tuttavia, quando riuscivi a sbottonarti, vincendo la soggezione reverenziale che ti ispirava, e gli parlavi cameratescamente delle tue vicende private, delle tue tresche, delle tue fantasie erotiche, come avresti potuto fare con un coetaneo, se la spassava. Un giorno al telefono – l’avevi chiamato come sempre dal lavoro, dal magazzino delle installazioni, per ritagliarti un po’ di privacy telefonica – con una sentenziosità per lui insolita, e quindi tanto più significativa, ti fece: “I figli sì, A., i figli sì… ma la famiglia no!”.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.