Nel 2020 saranno 250 anni dalla nascita di Ludwig Van Beethoven e il mondo si prepara a celebrarlo, come il genio che è. La sua musica è stata capace di compiere grandi imprese, compresa quella di diventare l’inno dell’Unione Europea, un’entità composta da paesi pronti a discutere e a litigare su tutto, ma non sull’Inno alla Gioia. Mi è tornato in mente Beethoven mentre rivedevo per una lezione uno dei film più famosi di tutti i tempi, Arancia Meccanica (di Stanley Kubrick, dal grandioso romanzo di Anthony Burgess) con Alex, il protagonista, appassionato di musica classica che adora il Ludovico Van, come lo chiama lui. La musica di Beethoven è talmente grande che nell’epoca del rock ci sembra del tutto verosimile che un teppista di oggi possa amare un compositore nato nel 1770.
Si tratta senza dubbio di un genio musicale. Ma cosa vuol dire essere un grande autore, quello che noi tutti consideriamo un genio?
Naturalmente io non so spiegarlo, ma penso che quando s’incontra un genio o il lavoro di un genio, tutti possano riconoscerlo.
Nel caso di Beethoven io l’ho riconosciuto per davvero qualche anno fa. Credo che il breve racconto di questa esperienza possa essere utile a quelli che provano a fare arte e si chiedono se ce la faranno mai. Tutti quelli che si chiedono quand’è che un artista diventa un grande artista, o per meglio dire: come fare a distinguere un bravo autore principiante da un autore maturo, piccolo o grande che sia. La parola genio, in fondo, serve solo a dare un’etichetta suggestiva a quello che nella mia esperienza è frutto di duro lavoro e solida preparazione. Eppure da soli non bastano. E non basta da solo nemmeno quell’altro invisibile elemento che definiamo talento. La via del fallimento è lastricata di talenti sprecati.
Forse quello che serve, oltre alla fortuna personale che non guasta mai, è un’unione di tutte queste cose più un’altra: il coraggio.
Era il settembre del 2010 e all’Auditorium di Roma il Maestro Kurt Masur dirigeva tutte e nove le sinfonie di Beethoven con l’Orchestra e il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia. Il Maestro tedesco era già molto anziano, aveva ottantatré anni, e arrivava lentamente al podio, ma la sala e l’orchestra lo accoglievano con venerazione. Ecco, insomma, un altro genio. Dirigeva senza bacchetta, per una lesione al tendine della mano destra che aveva subito all’età di 16 anni. Ci vuole coraggio, dicevo, come quello di guidare un’orchestra senza lo strumento che usano tutti. Masur questo coraggio ce l’aveva e anche se ormai poteva muovere poco anche le braccia, sapeva condurre gli orchestrali dove voleva lui.
Le nove sinfonie vennero proposte in quattro serate, perché è impossibile ascoltarle tutte insieme, si dovrebbe passare la notte al concerto. La sera d’esordio si suonavano la prima, la seconda e la terza, detta “Eroica”, dedicata prima a Napoleone e poi con dedica cambiata quando costui era diventato un tiranno.
Io non sono un grande esperto di musica, ma diciamo che dentro di me pensavo che il giovane compositore di queste tre prime sinfonie in fondo non si distaccava molto da tanti altri musicisti del suo tempo. Certo, la terza è celebre ed è in effetti innovativa rispetto alle altre due, ma insomma non mi bastava a riconoscerne il genio.
La quarta e la quinta vennero proposte insieme e fu quando cominciò il famoso attacco della quinta, da tutti conosciuto, che ho sentito qualcosa agitarsi dentro di me. Anche prima che cominciassero a suonare fissavo gli orchestrali, preso da una strana inquietudine. Mi chiedevo se sarebbero riusciti a fare quello che tutti ci aspettavamo. «Ma perché questo attacco è tanto temuto?» ha spiegato una volta il musicologo Enrico Girardi. «Perché l’opera inizia con un motto di cui è complicato rendere la natura ritmica: due volte la figura detta “del destino che bussa alla porta”, ossia il famoso sol-sol-sol-Mi, tre note brevi in levare e una nota lunga in battere, seguito dallo stesso materiale un tono sotto, cioè fa-fa-fa-Re, ancora tre note brevi in levare e una nota lunga in battere, questa volta però di durata doppia rispetto alla nota lunga di prima». A parte gli aspetti tecnici, ciò che desideravo in quel momento era sentir risuonare alla perfezione quelle note iniziali, che hanno la semplicità profonda della musica destinata a rimanere per sempre. Da uomo allevato all’ascolto della musica del Novecento potrei dire che sono la cosa più simile all’attacco di Satisfaction dei Rolling Stones che conosco. Però quello è un riff realizzato da Keith Richards con tre note suonate alla chitarra, non con un’orchestra, e non duecento anni prima. Comunque l’attimo dell’attacco credo che lo ricorderò per sempre. Fu magico. Lo sentivo, con quelle note era nato un genio, ed era stato il coraggio a crearlo. Perché ci vuole coraggio a proporre una musica che mette in apprensione anche i grandi maestri che devono eseguirla. E perché poi all’esordio non ebbe nemmeno un gran successo. Anche se dopo pochi anni cominciò a essere amata dagli appassionati di tutto il mondo.
Nelle due serate successive vennero presentate le quattro sinfonie rimanenti. Ormai conquistato, dovevo fare ancora solo un’altra scoperta. La sera in cui venne eseguita la Nona il palco si era riempito fino quasi a diventare troppo piccolo. Avevamo cominciato la prima sera con una orchestra di dimensioni non troppo grandi e adesso davanti a noi si stendeva una serie di file di musicisti e cantanti. E pensavo che per Ludwig Van Beethoven era valsa davvero la pena di cominciare con quella prima sinfonia e attraversare tutte le stagioni della sua vita, l’innamoramento poi rinnegato per Napoleone, la famigerata sordità, i successi e gli insuccessi, per arrivare a quel punto. E per me significava percepire l’essenza stessa della storia europea che giungeva al compimento.
Insomma, davanti ai miei occhi, o meglio nelle mie orecchie, da un preciso momento in poi il bravo compositore era diventato l’autore potente e profondo che tutti conosciamo, innovativo e coraggioso.
Ci insegnano gli scrittori che non bisogna inserire nel testo gli “spiegoni”, cioè i tentativi di spiegare ciò che dovrebbe risultare chiaro dal racconto in sé, quindi non metterò una morale finale a questo aneddoto. Solo l’invito a trovare il tempo per ascoltare una alla volta, magari in molte serate, le nove sinfonie di Ludovico Van. E scoprire cosa vuol dire essere un genio.
Nell’immagine un particolare del Beethoven 390 di Andy Warhol, 1987. A proposito di genialità e coraggio, si può discutere la grandezza di Warhol, ma non certo il suo coraggio: chi altri poteva pensare di fare arte colorando delle polaroid, rischiando di sembrare non un genio ma un dilettante che impastrocchia?