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L’estate di Tolstoj
L’estate era finita da un pezzo, ma Sonja ripensava spesso a quei giorni rumorosi e felici, quando Lev cavalcava nei boschi di betulle, o andava a caccia di anatre selvatiche con i nomadi del Volga.
L’estate era finita da un pezzo, ma Sonja ripensava spesso a quei giorni rumorosi e felici, quando Lev cavalcava nei boschi di betulle, o andava a caccia di anatre selvatiche con i nomadi del Volga.
Tra le mille paure che lo assediavano ne era spuntata una nuova, che gli faceva più paura di tutte, quella che lo bloccava davanti alla macchina da scrivere.
Calvino rilesse la lettera che aveva tra le mani, poi reclinò all’indietro la testa fissando un punto indefinito sul soffitto.
La casa è vecchia e tutta da rifare e certo, se uno volesse un posto dove scrivere e riflettere in santa pace, non sceglierebbe un appartamento come questo.
Sylvia sistemò le fette di pane su un piatto, prese il bricco del latte e il burro e li poggiò sul tavolo, vicino alla sua poesia, scritta su un foglio e lasciata lì.
“La mia contadinotta veneta”, la chiamava lui, quando la guardava con quegli occhi che avevano visto tutto.
Il barista che lo vede tutti giorni lo saluta, e lo chiama senatore. Lui lo ringrazia, ma lo avverte che a fine giornata senatore potrebbe non esserlo più.
Quella mattina ci sarebbero stati i funerali, tutta Hollywood avrebbe glorificato se stessa facendo finta di piangere la bionda più desiderata d’America.
Se non fosse stato così stanco avrebbe camminato ancora un po’, ma si stava alzando un vento freddo che lo invitava a rientrare.
La mattina del suo settantesimo compleanno Kenzaburō Ōe era stato svegliato da un allegro cinguettio.
Erano centinaia le lettere che il giovane intellettuale comunista, pazzo d’amore, aveva scritto quasi ogni giorno alla donna raffinata e bellissima, con dieci anni di più.
Quel mare così azzurro e calmo lo inquietava. Lo fissava per ore, cercando di cogliere un’increspatura, qualcosa di nascosto che premeva per uscire fuori.
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