La passeggiata di Andersen
Da bambino sognava di fare il ballerino, era magro e leggero, poi, all’improvviso si era ritrovato altissimo e con i piedi enormi, così il sogno era sfumato ancor prima di iniziare.
Da bambino sognava di fare il ballerino, era magro e leggero, poi, all’improvviso si era ritrovato altissimo e con i piedi enormi, così il sogno era sfumato ancor prima di iniziare.
Gli mancava il suo mare, quello di Travemünde, dalle acque gelide e agitate, a un certo punto gli sembrò quasi di sentirne l’odore, ma forse stava sognando.
L’estate era finita da un pezzo, ma Sonja ripensava spesso a quei giorni rumorosi e felici, quando Lev cavalcava nei boschi di betulle, o andava a caccia di anatre selvatiche con i nomadi del Volga.
Tra le mille paure che lo assediavano ne era spuntata una nuova, che gli faceva più paura di tutte, quella che lo bloccava davanti alla macchina da scrivere.
Calvino rilesse la lettera che aveva tra le mani, poi reclinò all’indietro la testa fissando un punto indefinito sul soffitto.
Sylvia sistemò le fette di pane su un piatto, prese il bricco del latte e il burro e li poggiò sul tavolo, vicino alla sua poesia, scritta su un foglio e lasciata lì.
“La mia contadinotta veneta”, la chiamava lui, quando la guardava con quegli occhi che avevano visto tutto.
Il barista che lo vede tutti giorni lo saluta, e lo chiama senatore. Lui lo ringrazia, ma lo avverte che a fine giornata senatore potrebbe non esserlo più.
Quella mattina ci sarebbero stati i funerali, tutta Hollywood avrebbe glorificato se stessa facendo finta di piangere la bionda più desiderata d’America.
Se non fosse stato così stanco avrebbe camminato ancora un po’, ma si stava alzando un vento freddo che lo invitava a rientrare.
La mattina del suo settantesimo compleanno Kenzaburō Ōe era stato svegliato da un allegro cinguettio.
Erano centinaia le lettere che il giovane intellettuale comunista, pazzo d’amore, aveva scritto quasi ogni giorno alla donna raffinata e bellissima, con dieci anni di più.
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