“In piena luce” con Daniela Matronola

La parola all'autrice di un romanzo di formazione al femminile in una città di provincia del Lazio, dove all'improvviso in televisione spunta pure un inedito Eddy Merckx.

Ho la sensazione che Daniela Matronola, dopo una lunga militanza come poetessa, narratrice, critica militante, stia vivendo un periodo di grazia letteraria. Ha da poco vinto il premio Malerba Narrativa 2023 per i racconti della raccolta Le porte del cielo,  dopo essersi aggiudicata negli anni il premio “Alghero Donna” per la poesia nel 2003, al quale si sono aggiunti il premio di scrittura femminile “Città delle Donne” nel 2011 e il “Prata Sannita/Anna Maria Ortese” nel 2020. Ma a parte i premi (che talvolta sono oscuri, però in questo caso mi paiono limpidi), io ne apprezzo da molti anni la capacità di muoversi tra scrittori in carne e ossa, opere immortali, critici e poeti, con curiosità e intelligenza rare e sincerità indiscutibile. Del resto chi volesse conoscerne l’acutezza e accuratezza critica può leggere almeno gli articoli che ha scritto per questo sito nella rubrica Per il giusto verso (raffinata e praticamente completa rassegna della poesia italiana di oggi). Comunque, posso dire che – dopo Partite, Manni 2010 e Il mio amico, Manni 2020 – Matronola ha trovato una cifra molto coinvolgente e uno stile sempre più sicuro in quest’ultimo romanzo, In piena luce (Les Flâneurs – collana Montparnasse 2024), che è una lieve ma profonda storia di formazione al femminile. Ed è sempre piacevole dialogare con lei sulla scrittura e la letteratura. Questa che state per leggere è un’intervista realizzata via mail, le ho mandato le domande e lei ha risposto scrivendo le risposte, con il suo stile personalissimo, che in redazione non abbiamo editato nemmeno per una virgola. Buona lettura.

 

Daniela, innanzi tutto come nasce questo testo?

Questo testo ha avuto una genesi (come il suo sviluppo) lenta costante e lontana. Le prime tre pagine, esattamente o quasi come sono ora, le ho scritte il 5 ottobre del 1995. Avevo in mente di scrivere una serie di racconti ciascuno intitolato col nome del/la protagonista e la raccolta si sarebbe intitolata (pensavo) NOMI, o NOMI DI PERSONE. Quindi l’idea era di scrivere un racconto: lo scopo era raccontare l’infanzia vessata, misera, di una bambina sfruttata da tutti, pure dai genitori, che in cuor suo scambiava queste vessazioni palesi per segnali di una condizione privilegiata. Al cuore del romanzo così come si è sviluppato nel tempo ed è ora, c’è questa vicenda, ma appunto il passaggio dal racconto al romanzo si è subito presentato come necessario nel momento in cui ho capito che chi poi lo avrebbe letto avrebbe dovuto da sé comprendere questa contraddizione, non avrei dovuto cioè io indicarla come opinione mia sulla vicenda e sulle questioni implicate, ma liberamente, chi avesse ricevuto il romanzo finito, avrebbe potuto con strumenti suoi arrivare a questa disperante conclusione. Che non illumina solo l’infanzia ma illumina la vita di tutti noi – cominciare bene nascendo sotto una buona stella, e tenendosela stretta.

 

Da quanto tempo lo stavi preparando?

Appunto, per completare il discorso sulla genesi del libro, la gestazione è stata lunga e tortuosa. Intanto il passaggio da un’idea di racconto a una necessità di romanzo cioè di ri–costruzione di un intero mondo e di un intero periodo (la vicenda presente si svolge nella prima settimana del giugno 1969), e poi un ulteriore doppio passaggio, tecnicamente spinto dallo stesso romanzo man mano che prendeva corpo, si rimpolpava e prendeva vita: da una narrazione al passato in prima persona a una narrazione in terza persona e al presente. Ciò ha reso possibile l’apparizione di un personaggio, addirittura un deuteragonista, Daniele – rimasto a lungo, anche in armonia col suo spirito, col suo carattere, defilato, quasi disperso nelle ombre nere che pure aleggiano su questo romanzo apparentemente ironico, persino comico certe volte. Il romanzo ha avuto una prima occasione di pubblicazione nel 2008 ma tutto è improvvisamente sfumato, e io presi la faccenda piuttosto male. In realtà, come un po’ riassumo nei ringraziamenti in fondo al libro, tutti gli ostacoli, a volte anche odiosi, che hanno reso la vita difficile a questo libro, sono state inattese risorse per lasciare al libro il tempo e lo spazio di parlarmi fino in fondo, e svilupparsi completamente: ora pare i tempi siano maturi per fargli vedere la luce del sole. Bene così.

 

Ho la sensazione che il tuo stile, qui, sia diverso da quello che ho letto nelle tue narrazioni precedenti. Mi sbaglio? Dipende dai bambini protagonisti, o da cosa?

Non so se dipenda dal lungo periodo di decantazione, se da alcuni interventi preziosissimi di editing, specie nel passato, che devo a Andrea Carraro (che ringrazio, e ritengo sia uno dei più grandi scrittori italiani – non lo dico per riceverne luce di riflesso, lo dico perché è vero) – sta di fatto che anche a me che lo leggo ora, dall’esterno, quasi che il libro non lo abbia scritto io, il romanzo sembra sviluppato in una narrazione e in una scrittura più distese, meno intorcinate come a volte con volteggio bizantino o barocco (a scelta, ah ah ah) mi sfizio a fare. Meno posposizioni, meno dovizia di termini, più chiarezza espressiva, periodi fluidi dunque un po’ meno ingarbugliati (ma poi, si sa, diabolicamente, dopo il pelo culliamo il vizio). I bambini sono semplicemente disarmati. Profondi e semplici come Myskin, che bambino non era però aveva una purezza da fanciullino. Hanno soprattutto, come è tipico, una limpidezza di sentire e una nitidezza di parola che è la loro arma e la loro vulnerabilità – cioè si inguaiano però vengono anche a capo di questioni che gli adulti non vedono e non risolvono perché ormai ingabbiati nel perbenismo che scambiamo per civiltà. Questo mi fa tornare in mente Margherita Rimi, poeta di Agrigento, e la sua raccolta La civiltà dei bambini (Libreria Ticinum Edizioni, 2015): nel suo lungo percorso, questo libro mi ha messo sulla strada tante persone che a titolo diverso sono intervenute nella mia altalenante conduzione del lavoro sul libro. Ringrazio tutti per avere nel tempo dato spazio a questa operina anche senza saperlo, spesso, perché il mio pensiero, pur distribuendosi intanto sull’altro mio filone narrativo, che ha nel frattempo prodotto qualche altro libro, era però sempre fisso su questo – per tutto il tempo in cui ho avuto questo libro quasi esclusivamente solo per me, fino a quando poi non ha trovato casa (editrice: Les Flâneurs – collana Montparnasse), il titolo è stato O Madre, poi proprio gli editori mi hanno consigliato di trovare un titolo più ampio, e che desse conto della luminosità pervasiva e prevalente nel libro, e abbiamo trovato insieme IN PIENA LUCE, che a me piace tantissimo.

 

Lucetta sei, quindi, tu? E gli altri bambini, invece, chi sono?

Potrei rispondere sì, e non sarebbe una bugia, però non direbbe per intero la verità. Quasi tutti i personaggi che sono nel libro, anzi proprio tutti, sono persone vere, viventi in molti casi. Dunque ho dovuto camuffarli dietro nomi un po’ truccati ma non completamente distanti dai nomi veri. In realtà il trucco è svelato all’interno del romanzo, nell’ultimo capitoletto, e così viene fuori anche il teatro-personaggio che è il contenitore del libro, Cassino, la mia città, di cui conservo tutto – la memoria, l’atteggiamento, il dialetto che ogni tanto sbotta verace davanti a certe situazioni estreme, lo spirito indomito, romano e ciociaro – italico e borbonico. Dentro di me sono la cassinese di sempre, anche se sono legata a Roma fin dall’infanzia, e ormai ci vivo da più di trent’anni. Sono cassinese come i monaci di Monte Cassino (Quel monte a cui Cassino è ne’la costa… sarebbe Dante, il Paradiso, il Canto XII cioè il canto di San Benedetto). Noi del nucleo più antico della città ci diciamo cassinesi come i monaci, e non cassinati. Lucetta sono io e non sono io: Lucetta è una me sublimata, va da sé, trasfigurata letterariamente. La fortuna di aver trovato casa (editrice) del resto la devo a Cassino. Risale a quando pochissimi anni fa, un paio credo, Davide Grittani, lo scrittore-giornalista, che cura per Les Flâneurs dei volumetti regionali della serie Dispacci, mi coinvolse nella raccolta di contributi per il volume sul Lazio e io raccontai Cassino con Restare in piedi. Questa mi pare un’occasione d’oro per ringraziare lui, e il comune amico Roberto Masi, poeta da Calenzano, poi Giulia Arnetoli, pubblicata proprio da Les Flâneurs, i comuni scrittori amici pratesi, tra cui il Lastrucci, e la filosofa Esther Basile che ci ha fatti conoscere. Cassino in realtà è nominata solo un paio di volte, per il resto è taciuta. Una delle due volte è a Roma (citta aperta, 1944) su un filobus dove una mamma, spazientita per i capricci del figlioletto, lo minaccia così: ‘A regazzì, sta’ bbòno ‘n po’, ché sennò te faccio mangia’ da ‘no sfollato de Cassino, hai capito? (per dire, la guerra!, e la fame!).

 

Che rapporto hai con l’infanzia, con la tua infanzia e con l’idea d’infanzia in genere?

L’infanzia è una favola, e come tutte le favole è piena di gioia di allegria di affetto ma anche di ombre lunghe di minacce di pericoli e di totale mancanza di difese. E poi dipende dagli adulti e dal mondo. Non tutto è amichevole o favorevole. I bambini sono manipolabili, si può spostarli, si riesce anche a ingannarli, credendo che la loro naturale pre-maturità non li conduca a scoprire la verità vera e a smascherare chi crede che giocarli (so già che ci sarà chi farà obiezioni a questa espressione, che per me è chiarissima) sia appunto un gruzzolo che già tintinna in tasca. Non è così. I bambini hanno quel drammatico sesto senso, quel sano intuito che fa sentire loro dove sta il vero e diventa a quel punto irresistibile sbandierarlo.    Ti racconto in proposito un piccolo episodio: ero a Mantova anni fa, seconda edizione del FestivalLetteratura, e alla fine di un incontro con Ian McEwan (Giulio Einaudi, suo editore italiano, luminosamente seduto in prima fila), ebbi modo di rivolgergli in pubblico una domandina: Ho notato che i suoi personaggi-bambini hanno sempre qualcosa di malizioso, di perverso, e che i suoi personaggi adulti mantengono sempre qualche tratto perversamente infantile, come mai? Lui balbettò qualcosa, poi taglio: E comunque non mi piace essere psicanalizzato. (Qui Mick Jagger, come riferisce divertito David Bowie in una intervista televisiva memorabile, alla provocazione di uno mescolato nella folla, Get your hair cut!, E tagliati sti capelli!, avrebbe risposto, What? To look like you? Per fare che? Per somigliare a te?) Ahahah! Ci eravamo già incrociati, con McEwan, il 7 ottobre 1997 (mentre eravamo lì fu annunciato il Nobel a Dario Fo), all’Hotel Raphael (l’albergo del lancio di monetine a Craxi): avevamo scambiato ammiccamenti e risatine, lui amichevole e affettuoso come certi tipici teachers anglosassoni. A Mantova mi sentii un po’ tradita, tanto vale che lo dica.

 

Lucetta sa giocare a pallone, ma naturalmente è una femmina: “Come può, per esempio, dimostrare a Sandro d’essere un’ala niente male, che quando occorre sa tornare indietro con fior di senso del gioco per agire da terzino, o puntare dritto agli stinchi o alle caviglie, andarci contro?” – questo pregiudizio di genere ti sembra attenuato oggi tra i bambini rispetto al tempo del romanzo?

Secondo me non è cambiato niente e non cambierà niente ancora a lungo perché chi fa caso a queste differenze perde tempo, chi ci sta dentro e ne è direttamente riguardato non ci fa granché caso salvo che in situazioni estreme in cui il problema viene posto a bella posta. Qui il discorso era anche: come faccio a farmi vedere per quella che sono senza doverlo sostenere ricorrendo all’oratoria e alla retorica, cioè al discorso parlato. Siamo più che mai in un’epoca dichiarativa anzi declamatoria in cui è certo solo ciò che viene detto. Ma è assurdo! I fatti dove sono andati a finire? Come mai i fatti non interessano a nessuno? E perché nessuno, disponendo di tempo, non lo dedica all’accertamento dei fatti invece di precipitarsi a costruirne di posticci a forza di parole? Potresti obiettare: ma dopotutto scrivere romanzi è proprio questo, no? NO! La letteratura non fa mai finta, edifica allegorie come palazzi scintillanti, opere architettoniche da cui la luce della verità rifulga meglio se non sia addirittura finalmente trovata, e rischiarata. Non a caso molti scrittori sono architetti e ingegneri… ah ah ah – io no, però sono appassionata di interior design, non so se vale.

 

E a un certo punto arriva Eddy Merckx, un grande campione ormai forse un poco dimenticato, colto in un momento di debolezza estrema…

Il punto lì era mostrare la mitologia, il valhalla dei nostri dèi profani, e smontarlo, o perlomeno dar conto del rischio, sempre in agguato, che qualcosa o qualcuno smonti i mostri miti e infici la nostra idolatria – mitolatria, passami il termine (so che qui protesterai) – del resto il libro dopotutto cerca di insistere su un punto anzi due, l’affidabilità e la fiducia. E creare una situazione di squilibrio tra l’infanzia e il mondo adulto per estremizzare questa bilancia sempre sbilenca era fin dall’inizio il movente che mi ha spinto a scrivere il libro, in cui ho rivisto la mia infanzia e come le forze contrapposte si giocassero di continuo le sorti di noi bambini in apparenza svantaggiati, vulnerabili. C’è uno sguardo, a un certo punto, e un sorriso – una luce! – che sovverte del tutto il rapporto di forze ed è l’autentica vittoria.

 

Nei tuoi romanzi ho letto tennis, calcio, ciclismo, cosa ti piace dello sport?

Da ragazzina ho giocato molto a pallone, come racconto, e ho molto sciato discendendo da un padre non solo campione ma anche pioniere di uno sci scomodo, senza ancora grandi impianti che riducessero tutta la fatica e il gusto di sciare alla sola discesa. Il tennis è la mia più grande passione, l’ho anche un po’ giocato, ma non vedevo la pallina sicché acchiappavo farfalle. Il ciclismo l’ho seguito passivamente per anni, Giro d’Italia e Tour de France, in tv, lo subivo, e la voce di Adriano De Zan mi esauriva. Il ciclismo mi ha sempre messo tristezza, eppure è uno sport con la S maiuscola perché è un autentico sport di forza e di resistenza. Forse proprio questo mi metteva angoscia, angoscia vera. Sia quando la tv era in bianco e nero, sostanzialmente grigia, sia dopo con l’avvento del colore. In questo romanzo c’è molta tv. La verità è che sono una schiappa, o una pigraccia come qualcuno mormora dietro le spalle. Dunque posso solo evocare lo sport, quanto a giocarlo sono un po’ negata. Per la chitarra è lo stesso: amo i chitarristi perché sono artisti, funamboli, in qualcosa di cui io non possiedo nemmeno il know-how elementare. Sarà spirito di emulazione? Però poi non ha seguito. Comunque tutto ciò che sia tratto dalla realtà, dalla nostra o altrui esperienza, e si usi poi nella scrittura non è letterale ma evocativo, e assume carattere simbolico. Sta per…

 

Nella scrittura apparentemente serena, con gli occhi di una ragazzina, spunta sempre qualcosa di più feroce. Mi sono fermato su questo periodo dedicato al Centro Addestramento Reclute: “Dove in seguito molti si tolsero la vita stremati dai rigori della condizione di matricole in un ambiente più che mai da caserma diventato sempre più inutile ridicolo corrotto vessatorio”.

C’è molta ironia, a volte comicità, cioè uno spirito fresco, anche vagamente inconsapevole, come è dei bambini che non vedono il confine perché non vedono il pericolo, anche se poi lo fiutano in determinate condizioni oggettive che soggettivamente li rendono avvertiti. Anche in questo caso agisce sulla pagina il motivo e movente di fondo del libro, che, mi accorgo, non ho ancora nominato mai, ma è lì ed è un fuoco mai spento, che non si estingue mai: il risarcimento. Volevo risarcire Margherita, bambina inerme, e convinta, paradossalmente, di essere una privilegiata: bersaglio privilegiato. Vale anche per le reclute del CAR poi BAR (Centro, poi Battaglione, Addestramento Reclute), figli di mamma, soldati temporanei vessati dai “nonni”:  li incontravamo a passeggio in libera uscita, che cercavano di respirare e di avere uno straccio di vita non dico affettiva ma para-sentimentale. Tutto terribile.

 

Lucetta sfoggia “il suo stile di maschio mancato, cioè di ragazzina austera, come le diceva sua nonna”, ma nasconde una “soavità segreta”. Cosa vince alla fine?

Vince la verità, cioè che tutto è possibile e tutto può stare con tutto. Su tutto però conta l’armonia. Questo libro parla anche di conflitti, di guerre, di fair play, di savoir faire, di diplomazia non come ipocrisia e finzione ma come rispetto dell’altro, anche del casuale o costante nemico. Cioè di deontologia umana. Il tema dei temi.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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