L’isola delle merende

Due sorelle. I diciotto mesi che le separavano sarebbero stati sempre un’eternità, sufficienti perché la protagonista si sentisse sempre in ritardo su tutto.

SINOSSI: Sandra è una ragazzina in sovrappeso che non vuole e non chiede mai nulla ma prova a esistere agli occhi dell’altro nel tentativo di renderlo meno distratto. Dopo la tragica morte della sorella desidera diventare invisibile. Cresce insieme a lei una volontà punitiva che la porterà, da giovane donna con una posizione di prestigio, a ottenere un corpo granitico e inaccessibile, perché chiunque provi a incontrare il suo dolore si frantumi.

Qualcosa mi impedisce di pensare al momento esatto in cui è successo che cadessi giù e morissi. Un attimo prima stavamo parlando di Beverly Hills 90210. Come avremmo fatto la sera con l’antenna del televisore? Non potevamo certo perderci una puntata. L’idea era di andare giù in paese al bar di Ninetta. A me piaceva Brandon, anzi in realtà mi piaceva più Dylan ma, come per le scatole di cioccolatini, ero abituata a lasciarti il migliore. Brandon era più dolce, l’altro sembrava più stronzo, dopo averci sedotto ci avrebbe abbandonato sicuro per una bionda, peggio per te se non lo capivi in tempo. Scendendo lungo il sentiero, con i capelli intrecciati dal vento, discutevamo come se dovessimo incontrare i nostri beniamini lì, da un momento all’altro, e decidere chi dei due poteva slacciarci il reggiseno. Mancavano solo tre ore all’evento ma non mi preoccupavo più di tanto, ti vedevo sicura ed ero fiduciosa che alle venti in punto, al momento della sigla, saremmo state sedute da qualche parte risucchiate dallo schermo. Va bene, Dylan è tuo ma io sono stata più fortunata con l’album delle figurine. Le avevo trovate sempre diverse e stavo completando. Ti avevo passato i miei doppioni senza chiedere niente in cambio e tu avevi accettato senza ringraziare. Avrei potuto scambiarli con le compagne e ricavarne qualcuna di quelle introvabili. Pazienza, eri mia sorella.

Avevi preso di nascosto la nuova macchina digitale di papà con l’intenzione di partecipare a un importante concorso di fotografia paesaggistica. Cercavo di seguire la scia dei tuoi scarponcini rossi mentre tu continuavi a parlare di ISO, oggi c’è la luce giusta, basterà mettere gli ISO a cento, calcolare l’apertura, diaframma aperto, diaframma chiuso, che ne potevo sapere? I diciotto mesi che ci separavano sarebbero stati sempre un’eternità, sufficienti perché fossi in ritardo su tutto. Avrei capito dopo come funzionava il computer, come si accendeva il motorino, come si spediva una raccomandata. Se ce ne fosse stata la necessità avrebbero chiesto a te di dare le chiavi ai clienti e segnare i loro nomi sullo schedario, di fargli vedere le stanze, di dare consigli sulle escursioni in barca. Io ero la dama di compagnia, stavo lì in silenzio, chissà servisse, chissà ti fosse caduto qualcosa dalle tasche. Gli ospiti chiacchieravano con te, ti facevano i complimenti e tu dicevi che facevi danza classica e che da grande volevi fare la ballerina. Anch’io facevo danza classica, ma a me non chiedevano nulla. Giorno dopo giorno studiavo la tua altezza, i tuoi fianchi stretti e quel sedere piccolo che piaceva ai ragazzi. Quando al mattino andavamo a scuola sfilavi dritta verso la porta d’ingresso mentre quelli del liceo ti fischiavano dietro. Lamentavi di avere troppi peli, ma erano imperfezioni provvisorie, mamma ti avrebbe permesso di fare la ceretta. Ti avremmo accompagnato dall’estetista assistendo devote all’operazione come fosse il rituale di passaggio di una divinità. Avresti trascorso l’estate pedalando in bici con le gambe lisce mentre io, che ero piccola, avrei preservato ancora quel fitto bosco sotto i pantaloni lunghi. Sarei rimasta sempre un passo indietro mentre tu e Mario vedevate per primi le stelle cadenti, parlavate a bassa voce, vi dicevate cose che non valeva mai la pena di ripetere, niente niente, non è niente. Mario ti aveva fatto la dichiarazione mentre io continuavo ad accarezzare lo scarabocchio che una volta aveva fatto sul mio diario, sognando che fossero parole importanti.

La borsa della fotocamera batteva sulla cinghia della tua cintura producendo un ritmo metallico su cui faticavo a sintonizzare i miei passi. Ti perdevo dietro ogni curva, ansimavo, mi affrettavo, ti ritrovavo e ti riperdevo di continuo fino a quando non arrivammo allo spiano del bivio delle ginestre.

“Guarda che colori, questa è la luce giusta, andiamo mia assistente!”

Restai per un momento bloccata lì, con la custodia vuota che mi avevi lanciato dopo aver tirato fuori un obiettivo panoramico. Mentre correvi trionfante verso il faro del Plemmirio io volgevo rassegnata le spalle al sentiero che portava giù al porto. Ero abituata a non discutere sui cambi di programma e non lo feci nemmeno quella volta. Non era mai richiesto che avessi una mia opinione su quello che stabilivi per tutte e due.

“Vengo!”

Era l’ora della merenda, sentivo lo stomaco brontolare, rimpiangevo di non aver portato almeno una brioscina. Nel cielo che si preparava al tramonto c’era una strana nuvola gigante a forma di ciambella rosa.

“Con questo soggetto vinceremo il primo premio, non è vero mia assistente?”

Mi fermai qualche minuto per prendere fiato, le gambe cominciavano a formicolare e sentivo le caviglie gonfie. Non avevo scelta, mi toccava proseguire per realizzare quell’opera che ti avrebbe valso la fama. Ti persi di nuovo per poi scorgerti lontano oltre i cespugli, completamente distesa, perpendicolare al bordo di una profonda falesia. Stavi scattando decine di foto in sequenza rapida, la luce stava per essere risucchiata dal mare e dovevi immortalare ogni particolare.

“Vieni a vedere!”

“Ma ho paura!”

“Dai! Striscia, vieni strisciando! Non ti succede niente!”

“Ma Beverly Hills? Si fa tardi!”

“Che palle, adesso andiamo!”

Pensai che in fondo era come nei film, alla fine non succedeva niente, alla fine i protagonisti se la cavavano sempre. Mi trascinai per una decina di metri avanzando a bracciate sulla pancia mentre tu, accovacciata sulle gambe, smanettavi con i comandi manuali. Quando mi trovai a pochi centimetri dalle tue ginocchia, ti sei alzata di scatto. Ti guardai dal basso, il tuo viso aveva assunto quell’espressione spietata che conoscevo.

“Ti faccio vedere come si mette a fuoco, alzati!”

“No, non voglio!”

Avvertii il bruciore dei graffi sulle braccia e guardai le dita che sanguinavano nel tentativo di trovare la massima aderenza al terreno roccioso.

“OR-SO YO-GHI, BU-BU! Mi è sembrato di vedere un cestino di merende!”

Strinsi i pugni, sentii il viso infiammarsi e il cuore battere dappertutto di sottofondo alla tua risata. Pensai a Mario, che amava i libri d’avventura, e trovai il coraggio di mettermi in piedi. Fu lì che ti sfilasti la macchina dal collo con uno strattone deciso, più in alto che potevi, forse nel tentativo di portare la cinghia dietro le spalle. Fu lì che hai perso l’equilibrio andando indietro, troppo indietro, in una danza goffa di granchio che prima su un piede, poi sull’altro, occupava l’inquadratura ferma dell’orizzonte.

“Forse, non lo so, non ricordo”, avrei detto poi agli uomini della caserma.

Quella scena in cui tu, mia sorella, cadevi per sempre davanti ai miei occhi, sarebbe stata sempre solo nostra. È un’immagine muta, il tuo viso stravolto da un urlo mentre allunghi verso di me il braccio con in mano la macchina. Era l’istinto di chiedermi di salvare lei, o te, o forse entrambe?

Se c’era qualcosa che potevo fare, non l’ho fatto.

“Che cosa ricordi?”

Nei tuoi occhi ci sarà stata sorpresa, terrore, ma a me sembra di ricordare più la presunzione. Gli spiriti, angeli o diavoli che fossero, potevano anche darsi una mossa per acchiapparti, tenderti una mano, sfidare la forza di gravità risalendo verso l’alto appendendoti per i capelli agli astri. Mi guardavi e io ti guardavo. Guardavo già la metà del mondo senza te, il respiro immenso di essere sola, la strada del ritorno senza sentirmi un segugio. Dove vai Iolanda, vengo con te Iolanda! Ti prendo? No, non ti prendo. Ho paura di cadere con te. Anche questa volta tu saresti la prima e io ti seguirei. Stavolta non ti seguo Iolanda. Vai, non ho il coraggio di guardare. Non guardo. Ho malissimo ai piedi, tornerò a casa senza fretta e racconterò quello che hai combinato. Iolanda ha voluto cadere giù dalla falesia. Non si fa. Avete visto? Non mi credevate quando vi dicevo che è lei la cattiva.

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