Il didascalismo

Quella cosa brutta che può insidiare il nostro racconto, renderlo scolastico o pedante o moraleggiante.

“No, non mi piace questo dialogo, riscrivilo, è didascalico!”

“Uhm, quella commedia che ho visto a teatro sapessi com’era didascalica!”

“Il didascalismo di **** è insopportabile! Deve sempre farci la morale sopra!”

Oggi parliamo di didascalismo. Quella cosa brutta che può insidiare il nostro racconto, renderlo scolastico o pedante o moraleggiante. Ma chiariamoci un momento le idee su questo termine, didascalismo, didascalico, che è polisemantico, nel senso che può significare diverse cose. Cominciamo dall’etimologia. Didascalico viene dal greco, didaskalikos, derivato di didaskalia, istruzione. Significato letterale, volto a far apprendere. Esisteva in epoca classica la poesia didascalica, nel senso di volta all’insegnamento. C’è sempre stata una letteratura didascalica, o didattica, divulgativa, anche i poemi di Omero in alcuni passaggi sono volutamente didascalici, vogliono trasmettere del sapere. Anche Brecht lo è in certe cose, nei drammi didattici, per esempio in Vita di Galileo. Lo è Rossellini nei suoi film storico-didattici per la televisione come La presa del potere da parte di Luigi XIV.

Oggi didascalico viene usato soprattutto in senso negativo, come un difetto, come qualcosa che appare costruito ad arte per informare, e cioè in definitiva inverosimile, irrealistico, fasullo da un punto di vista “artistico”, “drammaturgico”. Può venire usato nei più diversi campi: a teatro, quando gli attori recitano dialoghi improbabili, dove passano smaccatamente allo spettatore delle informazioni e dove magari moraleggiano, le didascalie erano/sono appunto quelle scritte esplicative di un’illustrazione o di una sequenza cinematografica, soprattutto nel cinema muto.

La didascalia è molto usata nel fumetto da sempre e si sostituisce alle nuvolette, cioè al dialogo fra i personaggi disegnati.

Vediamola come una voce fuori campo, un po’ com’era il coro nella tragedia classica. Il termine viene da lì.

Quindi, per tornare a bomba, dopo questo lungo excursus filologico-semantico sulla parola didascalico, noi scrittori, noi narratori, noi romanzieri, dobbiamo sempre guardarci dal didascalismo se vogliamo scrivere dei racconti che siano appassionanti per chi li legge, e che rispettino sempre la regola famosa della “sospensione dell’incredulità”, di cui tante volte abbiamo parlato in questi sconsigli. Solo in un caso possiamo essere didascalici: se lo vogliamo noi, se fa parte del nostro disegno esserlo, della nostra poetica, o se lo vogliamo essere per far ridere, cioè in una chiave comico-satirica.

Come esercizio vi propongo di leggere il dramma didattico Vita di Galileo di Brecht, per vedere come possa esistere anche un didascalismo “buono”, virtuoso. Alla prossima.

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Andrea Carraro

Andrea Carraro, scrittore, nasce a Roma. Se avesse ricevuto un euro ogni volta che sui media hanno usato il termine “il branco” per parlare di uno stupro di gruppo, citando il titolo del suo romanzo più noto, oggi sarebbe ricco. Invece è “solo” uno scrittore tra i più bravi. Romanziere, autore di racconti e di poesie, nasce a Roma nel 1959. Ha pubblicato i romanzi: A denti stretti (Gremese, 1990), Il branco (Theoria, 1994), diventato un film di Marco Risi, L’erba cattiva (Giunti, 1996), La ragione del più forte (Feltrinelli, 1999), Non c’è più tempo (Rizzoli, 2002) (Premio Mondello), Il sorcio (Gaffi, 2007), Come fratelli (Melville, 2013), Sacrificio (Castelvecchi, 2017) e le poesie narrative Questioni private (Marco Saya, 2013). Ha pubblicato anche due raccolte di racconti, confluite nel volume Tutti i racconti (Melville, 2017). I suoi giudizi critici, sensibili ma affilati quando serve, lo rendono un lettore del cui parere fidarsi con tranquillità.

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