Daniela Matronola, che ha con noi di Genius e con me in particolare una lunga, fruttuosa, frequentazione (da non perdere la rassegna di poeti italiani che ha compiuto proprio qui su queste pagine qualche tempo fa, Per il giusto verso) è una scrittrice sui cui torno spesso. Anche perché è – a suo modo – infaticabile. Racconti, romanzi, raccolte poetiche, scritti critici, traduzioni, interviste ad autori italiani e stranieri, direi che non ci sono limiti ai suoi interessi nel campo delle lettere. Questa volta parliamo di una sua raccolta di racconti, intitolata Le porte del cielo (MUP 2024), che contiene fin dall’inizio tre citazioni che sono già una sorta di percorso letterario. Una è di Dylan Thomas, una è di Bob Dylan (che com’è noto si chiama Robert Zimmerman, anche se forse non se lo ricorda più nemmeno lui, e ha deciso di chiamarsi Dylan in onore proprio del poeta, saggista, drammaturgo gallese) e l’altra è di Marcel Proust, che non sembra avere molto a che fare con gli altri due, ma che è forse una dichiarazione d’intenti dell’autrice stessa: “I grandi novatori sono i soli veri classici”, ma lasciamoci raccontare da lei questo suo libro.
Innanzitutto, questa raccolta di racconti ha vinto il Premio Malerba 2023. Anche se non è certamente il primo premio che vinci come autrice, è stata una sorta di consacrazione, no?
I premi sono sempre molto graditi perché dopotutto sono il riconoscimento pubblico, più che di un merito, di un valore, e anche di una funzione. Questo premio, il Malerba, è importante perché è legato al nome di un grande scrittore del Secondo Novecento, ironico umoristico grottesco, guastatore a suo modo, legato a una estrema avanguardia sperimentalista molto in polemica con l’establishment culturale. E poi è un premio che è il contrario di quei premi che ti imbalsamano come autore “arrivato”, semmai è un premio che sotto sotto vuole dire, Attenzione, sparuti lettori e sparute lettrici, voi che ancora ci tenete alla letteratura, attenzione: questo autore / questa autrice promette bene. Ecco è più l’indicazione di una promessa che la pietra tombale su una sicurezza. Mi piace molto questa cosa, vuol dire che il discorso è aperto, non si chiude qui: l’amo viene gettato a lunga distanza e la pesca potrebbe rivelarsi più avanti più miracolosa. Mi ha fatto piacere, non lo nego, quando c’è stato il conferimento, a dicembre 2023 – cui è seguita la pubblicazione nel 2024, che tutti i giurati presenti abbiano detto: il verdetto è stato pressoché unanime.
Qual è stata la genesi di questi racconti?
Uno di questi racconti è stato scritto il 22 giugno 1991, ero seduta accanto a Romana Petri (già uscita per Rizzoli con Il gambero blu e altri racconti e Il ritratto del disarmo, tenuta a battesimo da Giorgio Manganelli), io ero reduce da un anno di scrittura con Edoardo Albinati e Sandro Veronesi, con alle spalle Vincenzo Cerami, e tramite loro con Fulvio Abbate, Lidia Ravera e Marco Lodoli. Eravamo sedute alla cattedra degli esami di maturità nella sua scuola, io membro esterno di inglese, lei membro interno di francese. Mentre le sue classi svolgevano la prova di italiano io ho usato uno dei fogli protocolli timbrati e vidimati per scrivere un racconto allora intitolato Il contrattempo e ora Segmentale. Scritto in meno di sei ore. Quattro facciate piene piene. L’ho rimaneggiato sì, ma non molto. In realtà il primo vero racconto finito era un racconto che non è rientrato in questa raccolta assemblata ex post: Barbarossa, scritto proprio in pieno corso di scrittura; purtroppo l’ho ritrovato in formato cartaceo solo dopo aver inviato questo pugno di racconti al Malerba. Questi racconti si sono accumulati in trent’anni e più, e non pensavo di raccoglierli. Però a un certo punto ho cominciato a dare peso a queste singole storie e a sentire che, per quanto disparate, erano disperate abbastanza per stare in un contenitore – questo: Le porte del cielo. L’idea è di animare un mondo poetico, un humus di invenzione che tiene su ed è in comunicazione con tutto il resto che scrivo.
Mi sembra che fin dall’inizio, con citazioni che mescolano Proust, Dylan Thomas e Bob Dylan, il draghetto pompiere Grisù, i film, ecc., unisci alto e basso, ti ritieni un’autrice pop, postmoderna?
Ma certo! Come potrei non esserlo? Sono figlia del mio tempo, e un po’ do voce al mio tempo, come è inevitabile. Il punto è che per me tutto è trampolino verso il senso il simbolo e il significato, quindi i segni e i significanti, oltre il loro valore letterale, rimandano sempre a suggestioni oltre. Cioè c’è sempre un mondo intero, sotto la superficie, o, meglio, tra le sue pieghe, che lotta per emergere e offrirsi all’osservazione, per dirci che l’esito del visibile sta tutto nell’invisibile, e la scrittura riesce a rivelarlo: è il rovesciamento del guanto, no? Quindi tutto sta lì per accendere una sfida che debba essere raccolta e lanciata con ripercussioni il più possibile non innocue. Come in quella freddura, Lanciato sul mercato il nuovo modello di lavatrice Zoppas (ma esisterà ancora questa marca?): non si contano i feriti… ecco, visto?, l’ho rifatto: simbolismo e… battutismo. Mi fa sempre ridere sentir parlare di realismo, per me esistono solo ermetismo e orfismo. Il realismo è inevitabile, siamo umani, comuni viventi, il realismo è inaggirabile, ma non è la soglia del sogno?
C’è un personaggio di questi racconti nel quale ti immedesimi di più?
Molto mi immedesimo in alcuni personaggi maschili, non perché io sia loro o loro siano me, ma perché ho una condivisione profonda col loro mondo interiore, sono per me come fratelli. Però ho invece una certa somiglianza con molte delle figure femminili con cui condivido ad esempio una certa indipendenza mentale oltre che fisica e sociale, e in cui vedo raffigurata una idea di femminilità che non rifletta nessuno stereotipo indotto ma anzi una libertà proprio anche nel figurarsi sé stesse, una indipendenza d’azione e di movimento. E poi credo che alcune di loro non perdonino proprio niente alle donne se le donne sono individui opachi.
L’idea non è: viva gli uomini, viva le donne. L’idea è viva gl’individui, abbasso gl’individui. O anche, fuori da questa visione faziosa e un po’ miope, viva sempre le persone. Dopo di che, cosa le persone esprimono e come si relazionano e agiscono? Questa la questione.
Ci conosciamo da molti anni nei quali ti ho visto sempre leggere e scrivere, vorrei chiederti cos’è per te oggi la scrittura.
È una propositività che esercito anche per dire: non mi fermo a ciò che in apparenza è, provo ad andare oltre. Proprio oggi riflettevo sul fatto che molte persone sono abituate a vedere subito ciò che è negativo e non lasciano spazio a nulla di alternativo, cioè di positivo, che può anche non essere possibile, in un quadro nero, ma può diventare possibile se, analizzato ciò che è negativo e sta lì senza ombra di dubbio, si riesce a guardare altrove, a spostare lo sguardo, e a vedere anche un’altra versione della questione. Scovare del buono dev’essere almeno un desiderio. Cioè pensavo, chi vede solo la realtà guarda solo la superficie, e così facendo trattiene il respiro, non respira mai a fondo, vive in apnea! Ecco, la scrittura in tutte le sue forme è una respirazione a fondo, e forse è anche una forma di meditazione. È un esercizio di esistenza quotidiana a più ampio respiro in cui tutto l’essere è coinvolto a partire da tutte le parti del corpo fin nelle cellule e nei distretti più invisibili. Quindi è una partecipazione più totale e più a fondo alla cosa umana. Forse non è solo della scrittura, questo: credo sia di qualunque azione totalizzante, che venga compiuta fino in fondo.
C’è una frase che mi ha colpito nel racconto La vita offline: “Inventare storie o incantare platee con acrobazie e racconti sì, ma parlare a un altro essere umano, per giunta esponendosi e per iscritto, proprio non gli riusciva”. Racchiudi in questa frase forse la difficoltà di chi prova a scrivere?
Al contrario credo che è esporsi davvero nella vita a essere il vero salto mortale senza rete sotto.
Quel racconto ha avuto una strana evoluzione.
A un certo punto ha messo insieme due corpi che fino a poco prima si erano sviluppati separatamente senza in apparenza mostrare nessi comuni. Sono due storie d’amore diverse e anche successive l’una all’altra nel tempo: la stessa donna, due uomini diversi ma non contemporanei – è come se lei per compiere sé stessa avesse avuto bisogno di due situazioni in sequenza per completare il percorso intero. C’è anche, lì, un gioco, classico, di malintesi, di impropria comunicazione. Ma senza entrare nei meccanismi del racconto e raccogliendo la tua provocazione, direi che non è la scrittura il problema, mai: il problema è la vita.
Se dovessi dirci tra gli scrittori di racconti chi ti ha ispirata particolarmente nel tuo percorso d’autrice, sapresti sceglierne uno?
Potrei fare un sacco di nomi, e non vorrebbe dire che scrivo come gli autori e le autrici di racconti che ho letto – magari! Magari bastasse enumerare gli autori letti e le autrici amate per spargersi addosso il loro valore, farsi lustro dei loro nomi. Però qualche nome provo a farlo: Flannery O’Connor prima di tutto, con cui curiosamente condivido una formazione cattolica sfidata di continuo nella scrittura in netta polemica. Potrei dire la Ortese, più cupa però, senza aperture a volte. Potrei dire Emily Dickinson e Sylvia Plath per la fulmineità della forma breve, anche se sono poete. E poi la cara Toni Morrison, e Harriet Beecher Stowe letta a dieci anni, o Louisa May Alcott poco dopo. E poi il fulgido e cupo Ray Carver. E anche Edgar Allan Poe, e Edgar Lee Masters. Vogliamo parlare del Joyce di Dubliners? Poi mi viene in mente il Landolfi di A Caso (racconti in forma di dialogo, Premio Strega 1975), Tommaso Landolfi ciociaro russista che andò a risciacquare i panni in Arno, tanto che Idolina, sua figlia, nella breve conversazione che avemmo, fiorentineggiò senza riserve, e Fabrizia Ramondino, brusca e tenera – legati tutti e due, Landolfi e Ramondino, aItri… Un unico nome no, non riesco a farlo.
Tra questi racconti intimi, a volte privati, ne spunta uno che racconta l’attentato alle Torri Gemelle del World Trade Center, perché?
La storia di David ha girato nella mia testa a lungo e a lungo ho creduto potesse avere il respiro del romanzo. Invece, quando finalmente ho ascoltato i colpi, i pugni con cui ha bussato alla mia porta, ho capito che la sua era una scheggia da pulire affilare limare perché fosse una selce acuminata in cui ridurre a zero ogni cascame sentimentale e affettivo. Non nego che all’origine c’è Bartleby di Melville: del resto ciò che accade si ripete esattamente nel distretto finanziario di Manhattan un secolo e mezzo dopo, in tutt’altro disastro epocale. Mi commuove molto questo personaggio, come continua nel tempo a commuovermi la solitudine assoluta di Bartleby, solerte copista, che a suo tempo, prima di impiegarsi presso lo scaltro avvocato a Fulton Street, ha cercato di salvare dalla distruzione la posta non consegnata e scongiurare la dispersione dell’affetto non corrisposto. Credo che l’idea di Salinger dietro il suo The catcher in the rye venga da lì. L’idea cioè è di qualcuno che si erge e si tiene dritto nella bufera, resta in piedi nonostante sia investito da un vento teso di distruzione in virtù di una ragione di più, come nella canzone di Ornella Vanoni (cioè di Califano/Reitano).
Scrivere racconti, scrivere romanzi, scrivere poesie, tradurre, scrivere testi di critica letteraria, sono tutti lo stesso lavoro, secondo te che ti sei provata più volte in ciascuna di queste attività?
Sono facce della stessa attività. Non nego che si possa trarne, da fuori, un’idea di caos, e anche di mancata definizione univoca di chi fa tutte queste cose senza fermarsi a una sola di esse. Mi è stato anche detto con una punta di malcelata cattiveria: come dire, sì ma tu alla fine che attrezzo sei? Sinceramente non trovo che si debba essere per forza un attrezzo definito ad usum editorìae. Così come non è detto che si segua un corso di studi solo per diventare poi una pedina precostituita ad uso del mercato del lavoro. Il raggio d’azione di un individuo è libero e ampio, è partecipazione da par suo all’azione corale, e non da escludere dal coro se mostra, per dire, caratteristiche da solista. Però non nego che una certa difficoltà c’è a essere accettati per ciò che, per quanto strani, si è. Per esempio, le mie recensioni non sono ascrivibili alla critica letteraria in senso stretto, sono piuttosto analisi dei testi nell’ottica di chi scrive. È critica militante perché in genere seguo le uscite e mi applico, diciamo, alla letteratura contemporanea, però la matrice comune dei miei articoli è illuminare i meccanismi della scrittura.
Il titolo Le porte del cielo riprende direttamente una canzone di Bob Dylan, ma perché hai scelto questo verso per la raccolta?
A parte l’oggettiva bellezza, struggente, del pezzo di Bob Dylan, Knockin’ on Heaven’s Door (come si nota lui usa il singolare, io uso il plurale), forse con un po’ di ingenuità la mia idea, con questo titolo, era di dare a questi miei racconti la chance di volare nell’olimpo della narrativa breve, di guadagnarsi un posto in un ipotetico paradiso letterario, di affacciarsi a una scena di portata planetaria – non so se l’impresa sia riuscita.
Volevo bussare alle porte del paradiso, e arrivarci con furia graffiante come incitano i versi di Dylan Thomas – il grande ispiratore di Robert Allen Zimmerman: Do not go gentle into that good night / rage rage against the dying of the light – non presentarti mite a quella benedetta notte / infùriati infùriati contro lo spegnersi della luce. Volevo, ecco, far sentire la mia voce, che non è poi così flebile, dopotutto, né sperimentale anzi sperimentalista come sembra (ecco perché la frase di Proust). È un equilibrio mai concluso, un’altalena tra mitezza e furia, ecco. Volevo che si sentisse. Si sarà sentito? Boh! Ai superstiti l’inessenziale questione.