Quando suor Maria presentò alla classe Samuele, Alice non capì subito cosa la colpiva di lui, oltre agli occhi verdi dello stesso colore del suo vestito preferito. E infatti, fu solo al momento del pisolino, dopo una mattina intera trascorsa a osservarlo con l’indice in bocca, che realizzò che il suo nuovo compagno di classe era luminoso come una piccola stella, un fenomeno chiaramente più evidente al buio.
Alice gonfiò il petto e batté le mani. Che gioia! Quel giorno non dormì, e per il resto dell’anno provò a parlargli, ma un uccellino nella gola glielo impediva. Gli avrebbe voluto fare molte domande e anche giocare con lui, dirgli del suo vestito preferito e di come fosse uguale al colore dei suoi occhi. Quando lo raccontò alla sua mamma, di come Samuele brillasse e dell’uccellino che non la faceva parlare con lui, mamma Giulia le diede un bacio, di quelli sulla guancia con lo schiocco forte, e le disse di avere pazienza, che doveva aspettare, prima o poi ci avrebbe chiacchierato e ci avrebbe giocato, ne era sicura.
Una volta, era prima delle vacanze di Natale e loro stavano facendo merenda, Alice fu tentata di togliere dalla guancia di Samuele una briciola di cracker e, con l’occasione, verificare se la sua pelle, più luminosa delle altre, avesse per caso una consistenza o una temperatura diverse, ma si limitò a sorridergli.
Samuele ricambiava sempre i suoi sorrisi e, qualche mese dopo, vicino alle altalene, le chiese persino se volesse mezzo cracker. Alice fece finta di non aver sentito e corse a nascondersi nel castello di legno.
A fine giugno, la scuola materna finì, e la bambina non rivide più Samuele.
In terza media, mamma Giulia si ammalò. La sua voce era diventata un soffio, si muoveva lenta per la casa, e i suoi baci con lo schiocco erano sospiri.
Poco prima di morire, mamma Giulia brillò per un attimo. «Amore, liberalo», le disse. Alice provò a chiederle cosa intendesse, ma l’uccellino nella gola batteva le sue ali così veloce che lei non riuscì a parlare.
Quell’estate, Alice la trascorse nel letto. Pensò spesso a Samuele. Lo cercò, sempre dal letto, in una notte fresca e piena di cicale, reggendo con due mani lo schermo luminoso del telefono, il lenzuolo di lino fin sopra la testa, e scoprì che si era trasferito in una grande città, una città lontana. Ma lei era troppo stanca per viaggiare.
L’estate finì, e poi l’autunno, e poi l’inverno. Dopo un anno, Alice si alzò dal letto.
Col tempo divenne una donna, finì di studiare e trovò un lavoro.
Un giorno, mentre con la mano stringeva la maniglia di plastica lucida che pendeva dal soffitto della metro e con l’altra reggeva un pacchetto di crackers, lo vide di nuovo: Samuele, di fronte a lei e in mezzo alla folla. Non poteva crederci, brillava ancora.
Lui la riconobbe e alzò un braccio. Lei si guardò intorno e gli sorrise mentre finiva di masticare. Affondò la merenda nella borsa con la mano tremante e salì sulle punte, facendogli segno di scendere alla fermata successiva. Poi, senza più guardarlo, si fece strada verso l’uscita e raggiunse la banchina; lo vide avanzare da sinistra, tra la gente, lo sguardo su di lei.
Lo amava.
«Amore, liberalo», erano state le parole di sua madre.
Quando le fu di fronte, Samuele arrossì. «Ciao», le disse.
Alice aprì la bocca per rispondergli, ma ebbe un conato di vomito: qualcosa di solido e crespo, delle dimensioni di una noce, stava strisciando dalla sua gola alla bocca. Facendo leva con le zampette, avanzava tra la lingua e il palato, accarezzandole le gengive. Proseguì, il bolo piumato, fino ad affacciarsi tra le sue labbra.
Ancora mezzo dentro e mezzo fuori, l’uccellino ruotò la testa a piccoli scatti, il becco lungo e sottile.
Poi, con un guizzo, sgusciò verso l’esterno solleticandole le labbra. Liberatosi, dispiegò le ali, il corpicino bianco e verde leggermente inarcato. Stette immobile tra lei e Samuele, quindi si innalzò e, dopo aver fatto un giro sopra le loro teste, prese la via delle scale.
I due ragazzi si guardarono. Samuele rise. «Un colibrì! Dobbiamo seguirlo?», le chiese.
«Lasciamolo andare».