“L’impulso” di Lidia Yuknavitch – traduzione di Alessandra Castellazzi (Nottetempo)

Persone disgregate e sradicate che creano nuovi luoghi di sicurezza e riposo, dove il giudizio è sospeso e dove puoi iniziare a ricrearti una nuova vita, a volte con un nuovo nome.

Finisci di leggere questo libro e pensi, allora davvero gli scrittori e le scrittrici vedono il futuro? Personalmente credo che esista un legame tra il tempo presente e le visioni, talvolta misteriose, che chi scrive riceve e traduce in parola scritta, in corpi fatti di carne e sangue che emergono dal libro e ti spingono a riflettere su chi sei e quale può essere il tuo posto nel tempo. Ecco, di questo parla questo romanzo, di tempo, e di forme mutevoli e di legami oltre i confini angusti della vicinanza. Un romanzo corale, dove i piani temporali si sdoppiano, si moltiplicano, si confondono e si uniscono per sdoppiarsi di nuovo. In un futuro lontano ma non troppo, con cambiamenti climatici e crollo delle economie e degli equilibri statali e continentali, i protagonisti cercano di sopravvivere alla fame e alla perdita, aggravandosi a una serie di piccole speranze, quando un fiume di sangue ha sommerso ogni cosa degna di essere posseduta.

Ci sono persone che sopravvivono alla prigionia, alla schiavitù, alle torture inflitte da una politica migratoria crudele e ottusa. Tutto inizia con il lavoro di Kem, David, John Joseph, Endora che sono parte di quel grande progetto della costruzione della Statua della Libertà, e il delirio creativo alimentato da un carteggio appassionato tra lo scultore che lo ha progettato, Frederic Auguste Bartholdi, e sua cugina Aurora, e prosegue con le vite di Mikael, rinchiuso in un istituto di detenzione minorile accusato di omicidio, fatto per salvare una neonata, e la sua assistente sociale, Lilly, figlia di un boia, che cerca redenzione dal passato familiare colpevole, cercando di salvare ragazzini destinati a essere inghiottiti dall’orrore del sistema carcerario.

Ma soprattutto il libro è la storia dell’umanità condensata nella figura di Laisve, bambina magica, portatrice di oggetti che naviga tra le acque dello spazio-tempo. Orfana di madre, colpita da un proiettile vagante dalla polizia di frontiera, privata del fratellino, affidato dal padre un attimo a un passeggero sulla barca, e mai più restituito, Laisve trova oggetti sepolti nella sabbia o sul fondo dell’oceano. Quando anche il padre scompare arrestato nel corso di un raid da una milizia privata, Laisve comprende il potere salvifico delle parole e dei doni nascosti dietro il loro potere. Lei vede oltre le barriere e i confini, in bilico tra illusione e realtà, dove la realtà è non tanto e non solo la tangibile percezione di un corpo, ma il legame, potente, inossidabile, tra le persone, i loro struggenti desideri irrisolti, che li tengono in vita nel buio più feroce.

Aurora, dopo aver perso una gamba in guerra, crea una stanza di rifugio per bambini sfuggiti al lavoro minorile, alle mutilazioni e all’abbandono, e, sempre nella stessa casa, crea strumenti di piacere dove uomini e donne, attraverso la sperimentazione di oggetti, possono entrare in connessione con le loro verità nascoste, i loro traumi più nascosti. Come ha scritto Hermann Hesse: “Il piacere più forte e il dolore più atroce spesso producono lo stesso risultato”. Corpi contorti e supplici, aperti, spalancati, arti avvolti e mancanti, che tornano a trovare una forma di pacificazione.

Ogni personaggio, con tutte le sue crepe esposte e condivise, tenta, attraverso il tempo, di toccare l’altro, in un incontro che è già per questo una forma di salvezza, una speranza. Persone disgregate e sradicate che creano nuovi luoghi di sicurezza e riposo, dove il giudizio è sospeso e dove puoi iniziare a ricrearti una nuova vita, a volte con un nuovo nome.

Ho sempre pensato, come insegna la meccanica quantistica, che il tempo è curvilineo, e che su un punto potrò, come capita a Laisve, ritrovare mio padre ragazzo, gli occhi azzurri sognanti, intento a fumare una sigaretta, quando tutto quello che deve accadere è ancora e solo possibilità e gioia.

Il futuro e il passato sono destinati a sovrapporsi e a dipanarsi intorno e dentro di noi, minuscoli, imperfetti, che possiamo ribaltare l’oblio con il ricordo e la memoria.

 

“Eravamo le possibili voci impossibili dei corpi. Alcuni di noi erano nati qui e alcuni di noi erano i figli e le figlie di madri e padri che non venivano da qui. Venivano dalla carestia venivano dalla povertà venivano dalle occupazioni e dalla brutalità della guerra. Venivano da qualcosa che dovevano lasciare, ed era il motivo per cui avevano attraversato la terra e le acque. Parlavamo di brutalità e bellezza – o ricordavamo la bellezza – delle nostre terre natie o delle mani dei neonati venuti al mondo qui”.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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