Parliamo di “Notturno napoletano” con Nando Vitali

"La musica mi manca similmente a un arto fantasma che continua a dare segno di sé. Le mie frasi sono scritte su di uno spartito che contiene tutto".

Immaginate Napoli, in questo momento pare molto facile, c’è un’attenzione grande sulla città. Dalla squadra di calcio prima in classifica in serie A al nuovo film di Paolo Sorrentino, Parthenope, ecc. E immaginatela, però, ancora con delle aree oscure, o perlomeno grigie, notturne, da esplorare, lontana dall’oleografia classica e dalle riletture moderniste, con echi cinematografici e musicali per niente provinciali o risaputi. Immersa in illustrazioni in chiaroscuro, forse inconsuete ai più. Si può fare grazie a un volumetto appena uscito per Colonnese editore, Notturno Napoletano, che unisce due racconti di Nando Vitali con le immagini dell’illustratore Luca Dalisi. Nella storia di Luisella e in quella di Zampanò si incontrano, non solo questi due protagonisti o antagonisti tratteggiati con efficacia, ma una voce graffiante e nostalgica, evocativa. È quella dell’autore, che oggi abbiamo deciso di far risuonare tra le nostre righe.

 

Nando Vitali, come nasce l’idea di questa sintesi tra le tue parole e le illustrazioni di Luca Dalisi?

La natura clinica dell’immagine evidenzia la febbre del racconto. Ne esalta i punti critici fondendosi in modo cinematografico con la vicenda. La guarisce allo sguardo dall’imperfezione dello scritto, che si affanna a farci vedere con le parole, senza soggiogarle, però, della loro naturale mobilità e sforzo. L’immagine è uno scambio silenzioso e raccolto col testo. L’incontro con Luca Dalisi non ha avuto necessità di null’altro, se non la naturale coincidenza di una reciproca illustrazione. Ma senza quei disegni non avrebbe avuto senso il libro. Volevo qualcosa di magico, una luce nuova per chi come me sogna molto.

 

Secondo te, le immagini di Dalisi si limitano a illustrare il testo oppure aggiungono qualcosa che ha sorpreso anche te che l’hai scritto?

Mi hanno sorpreso per il tratto arioso e la velocità del tratto. Simile a una firma, o a un’ombra sfuggente.

 

Di Luisella, la protagonista del primo racconto, dici che forse può avere quaranta, cinquant’anni. Contano così poco dieci anni nella sua vita?

Luisella è una donna senza età, nemmeno proprietaria del suo tempo. La vita l’ha scartata, imprigionandola in una deformità che ne fa allegoria di una città corrotta e resistenziale al tempo stesso. Nei momenti più bui della Storia inaspettatamente emerge la luce in punta di piedi. E la salvezza, l’amore viene da dove meno te l’aspetti.

 

Luisella fa il mercato nero, non era un mestiere da infami?

In quella Napoli del ’43, lecito e illecito si sdoppiano. Conta sopravvivere. Non sappiamo nulla di Luisella, se non che vive in un anfratto, un fondaco nudo, per dirla alla Domenico Rea. La borsa nera fu un commercio illecito, è vero. Ma quante storie, fiori misteriosi sono emersi sotto quel cielo sconsacrato. La vita lasciava che emergesse il carattere nella sua più profonda e contraddittoria umanità. Lei avrebbe voluto partecipare alla battaglia. Ma per tutti era solo Luisella ’a scartellata, in taluni momenti figlia del demonio, talvolta la salvezza.

 

Il giovane “contrario” che compare nella sua casa è un nemico, si concedono gesti d’amore, i primi per lei. Questa storia è ispirata a qualche vicenda realmente avvenuta?

La storia è frutto della mia fantasia. Ma conosco da vicino, per vicende familiari, i frutti di quel momento storico dove i sangui si mischiarono. Dove certi ritorni a casa furono scoperta di altro da sé. Di come la violenza della guerra poteva costringere e stringere come pesci in una rete.

 

Il secondo racconto ti riporta indietro alla tua giovinezza? In ogni quartiere di ragazzini c’è sempre stato almeno un lupo mannaro…

A Bagnoli, quando ero ragazzo, si diceva che esistesse davvero.

 

E qui c’è l’incontro con Zampanò…

Io fingo di incontrarlo con un espediente narrativo che è figlio del mio amore per La strada di Fellini. Il lupo mannaro aveva fame di aria. Quello che immagino è anch’egli figlio di un dio minore. Un ex saltimbanco arrivato nel quartiere molti anni prima. Malato d’amore e abbandonato, solo di notte respirava liberamente.

La notte è il momento dello svelamento e dei fantasmi. La notte bagnolese era nera come il carbone della Fabbrica. D’altra parte, in generale, molte cose insolite accadono “fuori orario”, come se si scoperchiassero le bocche dell’inferno. E quel paradiso abitato da diavoli, come sosteneva Croce, si fa carne e sostanza, simile a un rito religioso e pagano. Ma anche certi angeli cadono dal cielo, come dal cielo sopra Berlino di Wenders, per nostalgia d’amore. Napoli è un luogo dove la magia è la norma in certi momenti. Ma la dannazione e la bellezza dell’amore sono una lava incandescente che non smette di eruttare.

 

E c’era davvero un cinema Cabiria a Bagnoli?

Il cinema Cabiria esisteva veramente, ed era come lo descrivo. Caotica mescolanza di corpi e fiati, dove il film diventava secondario a quello che accadeva dietro le quinte della proiezione.

 

A un certo punto compare pure una citazione musicale d’altro genere, L’Avvelenata, che richiama una celebre canzone di Francesco Guccini. Ti piace giocare con i riferimenti alle altre arti?

Amo la citazione come luogo di furto e devozione quasi religiosa. Rubare per ricreare. Non possedere o rivendere. Rubare il fuoco della conoscenza non è reato.

 

Cos’è per te la musica, che è al centro di questa storia?

Sono stato un musicista negli anni ’70. Ho conosciuto alcuni grandi, con molti di loro ho avuto avventure memorabili per la mia vita, o suonato. Sono stati anni dove eravamo tutti perdutamente innamorati di qualcosa. Oggi la musica la cerco nella scrittura come se nuotassi in un mare turbolento e bizzarro. Devo anche dire che si trovano fra i musicisti tipi umani spesso più interessanti che nella letteratura, di origine prevalentemente borghese, poco incline ai fiori del male.

Chiedi alla polvere, e ti sarà dato qualcosa in cambio.

A Bagnoli la musica ha fatto la storia e ancora la fa. La parlesia, la lingua dei musicisti, la lingua segreta per iniziati, gergo carbonaro, è espressione di vite imprevedibili, anche figlie della guerra, per esempio. I musicisti non hanno filtri. Anche oggi che hanno studiato o provengono dal Conservatorio.

Lo strumento per un musicista vero è la voce. Lo strumento è un’amante da portare a letto. Napoli ha il ritmo in tutte le cose che fa. Sa tradire e sedurre, o prostituirsi a un limite che travalica sovente. Vivere in questa città è un destino. Meglio se cammini a piedi nudi e ti ferisci, per poterla capire.

La musica la amo perché, come Bocca di Rosa, ti bacia in bocca con la lingua. Senza abbracci formali.

Forse Giuda fu quello che amò Gesù più di tutti.

La musica mi manca similmente a un arto fantasma che continua a dare segno di sé. Le mie frasi sono scritte su di uno spartito che contiene tutto. Un viaggio al termine della notte.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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