L’odio non è nato all’improvviso. È cresciuto pian piano per le continue frustrazioni, per le notti insonni. È la mancanza di sonno, che manda fuori di testa.
La stanza è illuminata dalla luce tenue della lampada da comodino. I bambini dormono nel mio letto. Li guardo, cerco di imprimere i loro volti nella mia mente, il modo in cui il loro petto si alza e si abbassa con ogni respiro, la tranquillità sui loro visi. Non c’è alcuna paura in loro. Si sentono sicuri nel lettone dei genitori.
Mi guardo allo specchio dell’armadio e non mi riconosco. Un tempo ero bella, piena di energia e di sogni. E adesso? Mi guardo e vedo solo l’ombra di me stessa, serva dei bisogni di chi ho partorito. Profonde occhiaie scure, una ricrescita di troppi mesi in testa.
Mi avvicino a loro, le mani tremanti. Ho una voce nella testa che cresce: dai, Angela che vuoi che sia? Un attimo e sarai libera. Solo un attimo.
Le loro risate, che una volta erano musica per le mie orecchie, ora sono solo rumore. Ho iniziato a fantasticare su come sarebbe la mia vita senza di loro, libera da quelle catene invisibili, da quella gabbia dorata che ho costruito con le mie stesse mani.
I loro pianti, i loro capricci sono come spilli nel cervello, a nulla serve coprirsi le orecchie con le mani o chiudersi in bagno; ogni richiesta, ogni lamento ti raggiunge ovunque tu voglia nasconderti.
Nessuno ti dice cosa fare quando a un certo punto l’amore svanisce, e anzi diventa un peso insostenibile.
È notte fonda. Mi siedo sul letto, li guardo dormire. Sono così innocenti. La voce torna: non è vero, lo sai che è tutta colpa loro.
Prima non era così. Cinque anni fa ho lasciato il lavoro per crescere Luca e Sara. I loro sorrisi, i primi passi, le parole incerte: un’infinità di momenti teneri. Ma poi, qualcosa è cambiato. Roberto ci ha lasciati soli tra queste mura che sanno ancora di lui. Ogni angolo mi parla di ciò che abbiamo vissuto, di ciò che lui ha deciso di gettare via per una versione più giovane e più nuova di me.
Dio, quanto sono stanca, è da tanto che ci penso.
Forza Angela cara, vedrai che dopo tutto sarà più facile.
No, no, non posso. Non posso fare una cosa del genere.
Certo che puoi.
La voce si fa sempre più forte e io sempre più esausta.
Mi chino su di loro. La mia mano impugna il coltello, si avvicina a Sara. Sembra la mano di qualcun’altra.
Sara riceve la lama in pieno petto, un solo urlo e crolla. Luca apre gli occhi, glieli copro. Sussurro al suo orecchio: “Dormi amore mio, la mamma è qui.” Lui si raggomitola accanto a me. Sferro il colpo preciso. E anche qui, un attimo ed è fatta. Aveva ragione la voce.
Il sangue è ovunque sulle lenzuola. I loro respiri sono scomparsi. Sento freddo.
Mi inginocchio a terra, guardo le mani sporche.
Afferro a manciate i sonniferi nel cassetto, mi riempio la gola. Tranquilli bambini, la mamma sta arrivando.
Tutto si offusca.
Silenzio.
Mi sveglio in un letto d’ospedale, le luci fluorescenti sopra di me. Luca e Sara sono andati e io sono ancora qui.
Dio, che cosa ho fatto? Come ho potuto?
Sai che non potevi fare altro.
È colpa tua, io non volevo. E adesso? Adesso? Che faccio?