Furio Bordon, regista, scrittore e autore di opere teatrali di successo, tra le quali il dramma Le ultime lune, interpretato tra gli altri da Marcello Mastroianni e rappresentato in molti Paesi, è in libreria per La nave di Teseo con L’album dei rimorsi, intensa e toccante rievocazione di episodi in cui il narratore/autore si è macchiato nel corso della sua vita di mancanze, di piccole crudeltà. La forma narrativa, coerentemente con l’impostazione drammaturgica dell’autore, è quella del dialogo, un dialogo incalzante e spietato nella sua estrema franchezza, con un interlocutore ben poco indulgente, che ha tutta l’aria di essere un amico immaginario, un grillo parlante, la coscienza stessa del narratore. Quest’ultimo sfoglia un album di fotografie e spiega all’amico chi sono le persone ritratte a partire da un compagno di scuola delle elementari, vittima dello scherno di tutti, per continuare con la nonna materna, da lui ingiustamente bistrattata durante una festa, la nonna paterna, di cui comprende la dedizione e l’amore solo dopo la sua morte, una ragazza nobile e generosa da lui perseguitata per via del suo viso da uccello, uno zio pianista, superbo e sfortunato, che gli fa da guida intellettuale negli anni dell’adolescenza e che lui trascura nei suoi ultimi giorni, una donna bella, seria, leale, che lo ama sinceramente e che lui tradisce con un’attrice spregiudicata, egoista e sprezzante, e altri personaggi ancora, nei confronti dei quali, nel corso di una vita, ha commesso piccole o grandi cattiverie, per le quali prova ora rimorso. Di tutti i personaggi quelli che emergono più vivi e toccanti dall’album della memoria sono i genitori, descritti coi sentimenti di tenerezza, di comprensione, di rimpianto, di rimorso, che di solito affiorano quando è troppo tardi, quando il bisogno di affermarsi, l’insofferenza, l’egoismo, l’ottusità, la crudeltà dell’essere figli si sono scontrati con le durezze della vita e coloro che ne sono stati vittime non possono più ascoltare le nostre scuse. Pagine particolarmente toccanti sono quelle in cui il narratore parla della malattia e della morte della madre, donna allegra, generosa, giusta e anticonformista, che viene pian piano inghiottita nelle tenebre di una demenza, che la rende irriconoscibile e che la porta a guardare il figlio con sospetto e a insultarlo come fosse il suo “peggior nemico”. Man mano che la morte si avvicina, la lente del narratore si focalizza su tutti quei piccoli fatti, che costituiscono il microcosmo del malato in fase terminale e di chi gli sta vicino: mute richieste d’aiuto, attimi di lucidità alternati a lunghi periodi di confusione, dialoghi rarefatti, incomprensioni, impennate d’orgoglio, allucinazioni, ribellioni violente e reazioni altrettanto violente (il narratore rompe involontariamente un dente alla madre), sguardi di doloroso stupore, lunghe pause di silenzio imbarazzato. Nell’evolvere della tragedia non mancano momenti di ironia e di paradossale comicità come quando la madre, al momento della visita per ottenere l’assegno di invalidità, fa di tutto, in difesa della propria dignità, per apparire lucida e autosufficiente. Alla domanda della dottoressa «Signora, perché non si aiuta con un bastone?» lei risponde candidamente: «Mi fa tanta malinconia», risposta che, a dispetto del mancato ottenimento dell’assegno, suscita nel figlio simpatia e ammirazione (“Quella era mia madre”). Non mancano neppure momenti di denuncia. Esemplare da questo punto di vista il resoconto delle ripetute chiamate al pronto soccorso, quando la madre nei suoi ultimi giorni si ammala di polmonite. È un susseguirsi di richieste d’aiuto e di indicazioni mediche contraddittorie, cui conseguono i comportamenti incerti e gli errori del narratore, errori (ne conta quattro in una spietata e autopunitiva contabilità del rimorso) che rendono più dolorose e drammatiche le ore che passerà al capezzale della madre. Particolarmente struggenti le sue riflessioni sul letto di morte, quando alla tragedia di una vita che se ne va si contrappongono i dettagli di una cruda realtà: un corpo irrigidito, una bocca che non si vuole chiudere, un lungo sacco di plastica grigia trasportato da due addetti delle pompe funebri. Quando un infermiere, dovendo compilare un modulo, chiede al narratore il nome di sua madre lui si blocca per qualche secondo: “Mi sembra di svelare qualcosa di intimo e prezioso… In quel nome c’è tutta la sua vita, c’è la tenerezza con cui lo avevano pronunciato i suoi genitori, l’amore di suo marito e la mia fiducia di bambino”. Poi gli torna in mente l’ultimo pianto di lei e la sua mite protesta per il dente che lui involontariamente le aveva rotto ed ecco che riaffiora il rimorso.
Rimorsi, dunque, rimorsi per tutte quelle piccole mancanze che si accumulano nella vita e che col passare degli anni ci fanno riflettere sul senso delle nostre azioni, sul confine labile tra il bene e il male, sull’abisso tra i nostri propositi e ciò che realmente facciamo, sulle condanne che ci infliggiamo e sulle assoluzioni che ci diamo. Nelle pagine di questo libro, grondanti di umanità, di pietas, di dignità, c’è la vita vera, pulsante, lacerante con la quale ognuno di noi deve fare i conti. L’autore lo fa con precisione ed eleganza, portandoci, tra dialoghi e riflessioni, al nocciolo della nostra condizione umana con una prosa che pare una danza.