Il linguaggio è tutto nel nostro mondo. È la possibilità di esprimere i pensieri e i desideri, di confessare l’amore o di sottrarci all’amore. Così può capitare che, tradita dal mondo e dalle sue promesse, una donna si chiuda in un mutismo selettivo, originato dalla morte della madre e dalla sottrazione del figlio di sette anni, affidato al padre dopo il divorzio, ritenuto il genitore economicamente più affidabile, nella odierna Corea del Sud. Non è la prima volta che il linguaggio verbale è scomparso, le era già accaduto durante l’adolescenza, e l’aveva riconquistato grazie a un’unica parola francese, ascoltata per caso. Con molto tempo libero a disposizione e una sorta di vita sfilacciata e inerte che le passa dentro, la donna comincia a frequentare un corso di greco antico, insieme a pochi e motivati alunni adulti, perdendosi nelle complicate forme verbali greche e nei testi di Platone.
L’insegnante è un uomo sulla soglia dei quarant’anni, tornato in Corea dopo una giovinezza passata in Germania da straniero e, avendo difficoltà a riappropriarsi dell’idioma natio, la strada che gli si apre davanti è quella appunto di insegnare greco antico, una lingua morta che non si parla più in nessun luogo della Terra ma che, a una persona senza patria emotiva, consente di trovare radici, sia pure limitate allo spazio-tempo dell’insegnamento. Le vite dei due procedono narrate in parallelo, lui sta per perdere la vista e intende usare il tempo che gli resta per vedere luci e ombre, tentare di perdonare sé stesso per aver perduto, per mancanza di coraggio, i due amori giovanili della sua vita. Un ragazzo e una ragazza rimasti in Germania, che ha danneggiato con la sua insicurezza, il suo essere ancorato all’immagine di ragazzo che stava per perdere la vista, impaurito al punto da fuggire di fronte al desiderio, tutte e due le volte in cui lo ha provato, bruciante.
Le solitudini di entrambi urlano in modalità silenziosa, e l’orrore risiede proprio nella mancanza di comunicazione totale che entrambi hanno con le persone che li circondano. Si muovono come ombre lungo i muri, in una perenne, sembra, bidimensionalità destinata a non diventare mai materia organica. Eppure, poi qualcosa accade.
In qualche modo, nella ricerca di una via d’uscita da una vita asfittica e oppressa, i due si incontreranno e impareranno i rispettivi linguaggi, dove forse le parole potranno ritornare alle labbra della donna, dopo aver ascoltato il racconto del professore.
Il linguaggio è fatto di tutta la vita che ci circonda, con la sua “pre-” e “a-” verbalità, dove ogni movimento o chiazza di luce ci riporta alla connessione con la parte profonda del nostro essere, il nostro punto più fragile ma anche il più resistente. E forse l’amore è cercare di toccare il corpo di qualcuno, per toccarne l’anima, aspettando i suoi tempi, senza aspettative o arsure da soddisfare. Come se fosse la cosa più semplice del mondo. Una specie di benedizione che scende dolce sulle ferite ancora aperte di entrambi.
Delicatezza, bellezza e potenza emotiva. Ogni pagina un incanto, uno stupore di fronte a ogni cosa o persona che ci sfiora. Il mondo visto attraverso un foglio blu o una lente protettiva, usata per difendersi dalla luce del sole, accecante, dolorosa.
“Giungo le mani all’altezza del petto.
Con la punta della lingua inumidisco il labbro inferiore.
Mi torco le mani con movimenti rapidi e silenziosi.
Le mie palpebre tremano. Come ali d’insetto che sfregano convulsamente tra loro.
Dischiudo le labbra, di nuovo secche.
Faccio respiri più profondi e ostinati.
Quando pronuncio infine la prima sillaba, chiudo forte gli occhi prima di riaprirli.
Come se mi preparassi a scoprire, nell’istante in cui li riapro, che ogni cosa è svanita”.