Viviamo attaccati a una realtà possibile, a volte timorosi di vedere altre forme di noi oltre lo specchio, portali magici che ci portano in mondi che somigliano al nostro, ma sono fatti di altre scelte, realtà deformate e altrettanto vive. Eppure, è possibile che i nostri legami stabili con il mondo tangibile vengano recisi e ci si trovi in una realtà parallela e deforme, disancorata dalle certezze che ci hanno insegnato a cercare.
Dopo il lockdown e la pandemia, che ha portato devastazione e perdita, la protagonista torna a vivere in Florida, con il marito, in una casa vicina a quella della sorella e della madre. Le peregrinazioni lavorative sono finite quando il marito ha perso l’incarico di professore e allora, insieme, hanno raccolto le briciole e le ossa della vita precedente e si sono imbarcati in un nuovo inizio. Solo che per Laura le crepe lasciate dalle ferite irrisolte di abbandono e tradimento del padre e dalla mancanza di comunicazione della madre sono ancora lì, intatte, pronte a risorgere in tutta la loro virulenza, come una rabbia contagiosa, capace di infettare chiunque la tocchi.
Le sue giornate sono scandite da un lavoro di ghostwriter per uno scrittore famosissimo, che comunica con lei tramite un gruppo di assistenti attivissime e intenzionate a portare a termine ogni bozza, ogni idea, in modo non dissimile da una missione. Le assistenti le chiedono di utilizzare un linguaggio semplice, che scivoli via senza difficoltà, perché quello che i lettori vogliono non è una lingua che colpisca, ma qualcosa di “dimenticabile, familiare, digeribile”.
La sorella più giovane è consumata da un rancore così potente da accettare di vivere appieno al di là della cornice del mondo abitato, preferendo vivere dentro la realtà virtuale creata dal visore MIND’S EYE, dove è possibile ritrovare le persone perdute. In verità il visore è una sorta di portale, capace di comunicare con le realtà alternative e le altre possibili vite che attendono ognuno di noi, ogni volta in cui apriamo una porta oppure decidiamo di potare una pianta.
Da ragazza, Laura ha avuto una seria dipendenza dall’alcool, talmente grave che ha spinto la famiglia a farla ricoverare in un ospedale psichiatrico, una struttura per giovani adulti con disagi esistenziali e mentali. Nel mondo chiuso della struttura Laura è ovviamente prigioniera, sottoposta a una riscrittura delle sue emozioni personali, deve sottostare a una terapia comportamentale per la gestione della rabbia, di cui sente di non aver affatto bisogno. Le cure verso le personalità visionarie o semplicemente differenti, che poi a volte, dopo, sono riconosciute come geniali, si basano sul presupposto, scabro e pragmatico, di farle rientrare nella normalità. Però questa supposta normalità, oltre alla capacità di attendere ai bisogni primari, non è anche una sorta di rinuncia silenziosa all’essenza distillata, pura e potente, della ribellione verso un mondo che tenta di inquadrarci e di classificarci in base a delle categorie prestabilite?
La Florida in cui Laura torna a vivere non è esattamente il Paradiso Terrestre immaginato ma, nel tempo alternativo e al contempo reale, diventa un luogo inospitale, attraversato da piogge apocalittiche ed eventi di turbolenza estrema, strani insetti e forme di flora nuova che sbocciano. Mentre Laura tenta di mettere ordine nella sua storia passata che si riflette sul presente, la madre prende atto che i cambiamenti climatici sono responsabilità del genere umano e quindi per riavere equilibrio bisogna restituire il pianeta alle altre specie e decidere di estinguersi, rifiutando la natalità.
Misteriosamente Laura vede il suo corpo cambiare, il colore degli occhi cambia, l’ombelico diventa un tunnel in cui immagazzinare oggetti perduti o ricordi, fino ad assumere una forma liscia, tonda, laddove l’ombelico è l’inizio della nostra ferita, del nostro stare nel mondo fisico, la separazione tra il mondo dell’aria e quello prenatale, acquatico.
In un romanzo che capovolge gli specchi, le forme narrative e la rassicurante immagine che gli specchi stessi ci rimandano, l’autrice descrive, in maniera lirica e potente, il legame che esiste da sempre tra vita e linguaggio, e le storie che dal linguaggio scaturiscono, possibili, reali tanto quanto un mondo tangibile fatto di carne e sangue. Siamo con lei nel territorio paludoso e malsano di una post alluvione, le facce grigie di chi vive al chiuso, le scorte alimentari ridotte, l’abbondanza un ricordo ingombrante. Del resto, la dimensione che noi conosciamo non è l’unica, e quello che ci ostiniamo a creare e considerare come reale potrebbe essere il sogno di qualcuno che ci conosce e cerca di comunicare con noi attraverso le storie.
“Il giorno in cui scompare mia sorella, arriva una pioggia torrenziale blu e spessa. Cadono dodici centimetri d’acqua solo nella prima ora. Alla TV, i meteorologi non sanno cosa dire. I radar non mostrano le avvisaglie di un uragano, non ci sono le masse violente di rosso e arancione che si intrecciano, si gonfiano e si scontrano, come mostri alla ricerca del prossimo posto da distruggere. C’è solo una nebbiolina color seppia sopra tutto lo Stato, come un velo che nessuno sa come squarciare.
Quella notte rimaniamo in piedi davanti alle finestre del soggiorno a guardare la pioggia. Mia madre ha un generatore d’emergenza, per cui la casa è ancora illuminata, ma le luci sono di un giallo pallido e tremolante e la macchina fa un ruggito spaventoso; sembra che stiano massacrando qualcosa dietro casa”.