Essere nel mondo comporta una responsabilità, perché significa avere relazioni con le persone. In un certo senso esserci è anche un con-esserci. Ed è a questo tipo di relazioni con il mondo che lo circonda che Mattias cerca di sfuggire fin dall’adolescenza. Nato a Stavanger, una cittadina industriale norvegese la notte dell’allunaggio, il suo eroe non è Neil Armostrong, il primo uomo a calpestare il podio lunare, ma Buzz Aldrin, il secondo in eterno, quello dimenticato. In realtà Mattias non vuole neanche arrivare secondo, lui non vuole proprio gareggiare. Si sottrae ai suoi stessi talenti: è un bravissimo cantante ma si rifiuta di esibirsi con la band del suo amico Jørn, decide di fare il giardiniere perché le piante non lo costringono a un confronto, sta con la stessa ragazza, Helle, dei tempi del liceo. Così a 29 anni i confini con le cose si erodono, fino a renderlo trasparente, inconsistente. Tutto esplode con il fragore di un temporale estivo quando Helle lo lascia, perché vicino a lui si sente privata di energia vitale, e il vivaio dove lavora chiude definitivamente per mancanza di richieste, perché “adesso tutti comprano i fiori al supermercato”.
Senza prospettive, Mattias decide di fare compagnia a un minitour della band di Jørn, nelle Faroe, minuscole isole dell’arcipelago danese, accettando di fare da vocalist.
Quello che accade è che viene trovato da uno psichiatra, Havstein, zuppo di pioggia e confuso, su una panchina, senza nessun ricordo di come sia arrivato lì. Senza legami e con i fili mentali ingarbugliati, Mattias accetta di seguire Havstein nella sua casa-famiglia di ragazzi con problemi di disagio mentale, in cerca di una camera di decompressione prima di tornare nel mondo. Quello che trova insieme a Palli, Anna, e NN (no name, che poi si rivelerà chiamarsi Sofia) è una sorta di famiglia elettiva. Un luogo fisico nato dalla ricostruzione di una ex fabbrica abbandonata, tra persone che hanno crepe nell’anima e ferite che gli hanno impedito di adattarsi a un mondo che esige rigore, precisione ed efficienza. A questa compagnia si unirà più tardi Carl, un fotografo di guerra, che conosce molto bene la differenza tra cercare di essere invisibili e non aver avuto nessuna possibilità, nascere già condannati all’oblio.
Ogni volta che c’è una possibilità di contatto umano profondo, Mattias scappa. Si nasconde anche dal suo potente amore verso NN, lasciando che i fili sparsi del loro essersi toccati l’anima non diventino un contatto fisico, preferendo la fuga a ogni possibilità di sconfitta o di perdita. Si vive rischiando di morire, ma anche, forse di riuscire ad aprirsi alle possibilità d’amore. Le Faroe, con il loro isolamento dal mondo, le difficoltà logistiche, gli inverni bui e freddissimi, sono un luogo perfetto per l’umore di Mattias, un rifugio per il corpo e l’anima, un posto dimenticato. Eppure, incredibilmente, la vita e tutto quello che significa lo verrà a cercare, lo scuoterà fino a fargli battere i denti, gli darà quello che cerca di evitare fin dall’adolescenza, dolore e possibilità di cambiare.
Quello che anima Mattias è il suo ostinato rifiuto ad accettare le possibilità che pure ha ricevuto, come il suo incredibile talento nel canto, e rinchiudersi in un carapace, una forma di protesta verso il mondo che lo chiama e che sembra fatto per i vincitori, lasciando indietro chi, per caso, per sorte avversa o per indole, vincitore non è o non vuole esserlo. Ma pure questa sua pervicacia non è forse un modo, elaborato, per sfuggire alle responsabilità, una forma di prudenza estrema che sconfina con la vigliaccheria? Perché solo nell’incontro con le altre persone si cresce, e in ogni fine c’è comunque un nuovo inizio.
Romanzo non facile, che costringe il lettore a interrogarsi su che tipo di vita gli interessi davvero, se l’essere inserito in un circuito sia quello che desidera oppure una forma di rinuncia al pericolo in cambio della sicurezza.
“La persona che ami è fatta per il 72,8% d’acqua e non piove da settimane.
Aspetto. Sto lì fermo e aspetto. E così riesco a vederla, da qualche parte lassù, a mille, forse tremila piedi sopra di me, la prima goccia che si forma e si stacca, molla la presa, e io resto lì a faccia in su, tra poco pioverà, e io guardo in alto, vedo quell’unica goccia che punta dritta verso di me, la velocità aumenta e l’acqua è deformata dal moto, la prima goccia cade e io resto immobile finché non sento che mi colpisce in mezzo alla fronte, esplode ai lati e si divide in frammenti che cadono sulla mia giacca, sui fiori ai miei piedi sulle mie scarpe e sui guanti da giardino. Chino la testa. E comincia a piovere”.