“‘O Cane” di Luigia Bencivenga (Italo Svevo)

I personaggi evocati e messi in scena in questo romanzo hanno la vibrante capacità di portarci con loro, nel mondo strascicato e confuso nel quale si muovono che ricorda la tradizione teatrale partenopea.

Un mondo abitato da esseri umani privi di gentilezza, una città decadente e decaduta, Ilias, città immaginaria sita in Campania, la cui periferia, Cala Renella, è il rifugio di tossici, delusi e disillusi, persone che smaltiscono dolorose pene d’amore epiche e senza tempo, dove gli unici esseri senzienti gentili ed empatici, innocenti, sono i cani, presi di mira da uno o più feroci serial killer, che hanno come scopo ultimo non solo l’annientamento degli animali, ma la purezza di cui sono portatori, nel tentativo di distruggere la solidarietà tra viventi.  Gli umani non hanno da subito contezza del pericolo e, quando lo comprendono, non hanno reali armi per fronteggiare un nemico che agisce all’improvviso, sicuro e senza traccia di ripensamento e soprattutto senza paura di punizione.

I personaggi evocati e messi in scena nel romanzo hanno la vibrante capacità di portarci con loro, nel mondo strascicato e confuso nel quale si muovono che ricorda la tradizione teatrale partenopea, dove le idiosincrasie, le debolezze, diventano elementi fondanti di personalità. Qui, sovvertendo ogni topos narrativo, il trionfo è una elaborata forma di degrado che rende chi lo compie oggetto di ammirazione.

In mezzo a questa umanità dolente, afflitta, violenta, che pure suscita molta simpatia, al centro del sottomondo di Cala Renella, vive e respira Mimì Nasone, chiamato Figlio delle Stelle, per il tatuaggio sull’occhio destro che ricorda quello di Paul Smith, il cantante dei Kiss, e legato da profondo affetto al cane Garryowen, in un rimando all’Ulisse di Joyce, oltre al fatto che gran parte delle vicende iniziano il 16 giugno e si snodano lungo un denso e brevissimo arco temporale.

Il vero padre di Mimì, circostanza che lui scoprirà solo in seguito, è Sauro Consilia, detto Uomo Nero, pratico di sesso estremo e profondo conoscitore delle debolezze umane e del bisogno di gratificazione. Con mano ferma e studio accurato, Sauro dirige il carcere sperimentale Dostoevskij, nel quale viene riprodotto il regime di consapevolezza e di contrizione che suscita un delitto violento, esattamente come nel romanzo Delitto e Castigo. I detenuti passano attraverso un regime carcerario degradante e privativo, contrario a ogni forma di umanità, per arrivare, dopo tre anni, a una libertà tale che le celle sono lasciate aperte, perché a nessuno viene più voglia di uscire. L’accettazione della possibilità di scegliere il male come prima e più facile scelta viene controbilanciata dal senso di perdono che la società stessa, tramite il lungimirante Sauro, somministra a chi accetta le ragioni della detenzione fino ad amalgamarsi con il sistema carcerario e a diventarne pilastro.

Come recuperare l’umanità scolorita e dimenticata di una sorta di corte dei miracoli napoletana dove i personaggi sono pustolosi e afflitti da piaghe da decubito, affamati di cibo e di attenzioni, disposti a fare qualsiasi cosa in cambio di un po’ di sollievo dalla loro astinenza da emozioni? Non ci sono risposte immediate, a parte l’amore autentico, sincero, che molti provano per i loro animali, vittime sacrificali di serial killer a una forma di divinità senza nome.

In un universo narrato e riprodotto come una grottesca rappresentazione traboccante di umanità spregevoli, viziate, deformi nel corpo e nell’anima, la trama si frantuma e si trasforma in immaginazione partecipativa, esperimento di pensiero, ecolalia di suoni primitivi, grugniti e smorfie, che appartengono al contempo al mondo onirico e surreale e tuttavia radicato e assimilato in certe tipologie di società, dove la compassione diventa una macchia sul muro da cancellare, o, peggio, una pantomima da recitare. Ogni personaggio è perfettamente incastrato nel suo personale e pericoloso desiderio, una brama avida di possesso di oggetti e persone, senza distinguere tra gli uni e le altre, nella straripante certezza di essere i migliori e di meritarsi il successo. Il linguaggio è sapido, potente nella sua immediatezza, ogni parola corrisponde esattamente alla necessità di essere messa su carta, e letta.

La sensazione che provi, quando hai finito di leggere ‘O cane, è quella di avere addosso e dentro tracce appiccicose di caldo torrido, un sole accecante che azzera i pensieri, e la voglia di uscire a salvare qualcuno, qualcosa, un essere indifeso capace di riportare equilibrio nel nostro mondo attraversato da una forma inevitabile di violenza.

 

“Il fiato di un cane sul collo, la lama dei denti, l’umidità di un palmo di lingua. Lo ha raccolto giusto in tempo, prima che lo sbranassero per intero. Accerchiato da cinque cani eccitati dall’odore acetoso delle carni, dopobarba da anziani, marca popolare. Che ci faceva da quelle parti? Avrebbe avuto anche il tempo di scappare,  fin dal primo di una serie infinita di latrati che ha ignorato,  forse sottovalutato, nascosto dietro la siepe a guardare l’amore degli altri”.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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