È arrivata all’esordio letterario, con un romanzo secondo me davvero bello, Monia Serapiglia. Il suo La pazienza delle farfalle (Dialoghi 2024) è un percorso che il lettore fa con un po’ di timore per quello che capita alla protagonista, Nadia, e con la speranza che la sua vita possa cambiare. Una storia di formazione vissuta tra la povertà dignitosa di una famiglia resa disfunzionale soprattutto dal padre di Nadia (chiamato dalla piccola solo pa’) dopo la morte della nonna Emma, ma sorretta dalla forza della protagonista e dalla presenza di alcuni personaggi che sostengono la ragazzina nella sua crescita, anche del tipo che non ti aspetti. L’energia della narrazione è affidata a una voce originale che suona realistica ma nello stesso tempo quasi lirica, non nel senso del “poetese” che troppo spesso avvilisce alcuni libri pure di successo, ma nell’espressività che la lingua di Serapiglia talvolta raggiunge, con pochi efficaci tocchi. Come la descrizione di pa’, di Nadia neonata e della loro casa dopo che la madre della bambina li ha lasciati:
“Dopo la fuga di mia madre pa’ aveva cominciato ad accumulare cose vecchie che raccoglieva lungo le strade, dentro i cassonetti. Non vedeva il disordine crescere, le bollette ammucchiarsi, la carne riempirsi di vermi sul ripiano del lavandino. Era il suo modo di soffrire. La casa e la vita gli si disfacevano intorno e lui, impotente, aspettava che Emma corresse a salvarlo come aveva fatto con Luna. Ma lei non ne voleva sapere. Aveva mandato mio nonno che mi aveva trovata bruciante di febbre in mezzo alla mia merda e al mio piscio, la pelle blu e le mani a pugno sul viso come quelle di un pugile che si protegga dai colpi dell’avversario”.
Ecco, La pazienza delle farfalle merita una lettura ed è per questo che ho il piacere di scambiare con l’autrice qualche parola sulla sua genesi, che ho seguito passo dopo passo nei laboratori di Scuola Genius, e sulla sua formazione di autrice.
Prima di tutto, Monia Serapiglia, questa storia che racconti ha il ritmo della realtà, si tratta di una vicenda realmente accaduta?
Non completamente. Diciamo che prende le mosse da una vicenda vera che mi sta molto a cuore, ma poi vive di vita propria. Nadia, per esempio, è un personaggio che incarna le fragilità di tanti ragazzi che ho avuto come studenti durante una supplenza in una scuola di San Basilio. Così, pa’ è la somma di certi padri che incontro quotidianamente nel mio lavoro. Altri personaggi no, li ho inventati oppure pescati nel calderone delle mie vicende personali come certi aneddoti presenti nel libro.
Metti insieme nel titolo due concetti apparentemente lontani tra loro, la pazienza e le farfalle, con una vita così breve e gli svolazzamenti di fiore in fiore, le farfalle possono essere pazienti?
Secondo me, sì. Anzi, le farfalle sono le creature più pazienti del pianeta se ci pensiamo. Passano per una metamorfosi che le vuole prima bruchi e poi crisalidi. Un processo che richiede mesi mentre da farfalle hanno una vita molto breve come dici tu, due o tre settimane. La metamorfosi comporta cambiamenti radicali nella forma del corpo e nello stile di vita delle farfalle. Io me lo immagino come un processo doloroso. E nella parola pazienza c’è il concetto di sofferenza, accettazione, sopportazione. Mi è sembrata una buona metafora da applicare alla vita di Nadia. Ma vale anche per altri personaggi, Selma e Daniele per esempio.
La tua è una storia di formazione, t’interessano i giovani che stanno crescendo?
Moltissimo. Soprattutto mi interessano gli adolescenti che crescono nel disagio familiare e sociale. Quei ragazzi per cui la scuola è un obbligo, una sofferenza appunto, e non ravvisano nell’istruzione una qualche forma di libertà, di riscatto, un mezzo per farsi strada nella vita. A me dispiace moltissimo perché io ho ricevuto tanto dalla scuola, dai libri. Sono stati gli strumenti che mi hanno spronata a fare sempre meglio e che i miei genitori non hanno potuto darmi, non per egoismo (sono stati sempre amorevoli con me e le mie sorelle) ma per mancanza di risorse.
Che famiglia è quella in cui si trova a vivere la ragazzina protagonista?
È una famiglia come ce ne sono tante. Mi verrebbe da dire purtroppo ma poi penso a una cosa che un giorno mi ha detto un mio caro amico psicologo, e cioè che nella disfunzionalità uno può trovare un proprio equilibrio, in qualche modo accomodarsi, e sospendo il giudizio. C’è questo padre che non è tagliato per fare il padre, per come uno immagina che un padre debba essere: amorevole, accudente, presente. Ha le sue fragilità, i suoi difetti. Mentre lo scrivevo e descrivevo a tratti mi faceva rabbia e in certi momenti tenerezza. Ne ho incontrato di padri così, e di donne come Emma, la madre, che in quanto tale lo ama incondizionatamente. La famiglia in cui si trova a vivere la protagonista è una famiglia tossica che non sa di esserlo. È una famiglia che affama incastonata in un mondo ruvido, a volte feroce a volte dolcissimo.
Tra i vari personaggi, ci sono anche degli zingari, trattati in modo realistico e senza romanticherie, conosci bene quel popolo?
Non per esperienza diretta, per il libro ho fatto delle ricerche attingendo anche alle storie di alcuni alunni. A San Basilio, dove ho insegnato un anno, c’era un ragazzino che proveniva dal campo nomadi vicino Tiburtina. Discriminato dai compagni e, ahimé, anche da qualche collega, ha finito per abbandonare la scuola. Ho saputo che il padre ha preferito portarlo con sé per i piccoli furti e per lo spaccio. Un’altra alunna è stata presa in carico dai servizi sociali perché i genitori volevano darla in moglie a un cugino. Aveva dieci anni! Questa è l’ombra, ma c’è anche la luce. Per esempio, quella di un’alunna che mi raccontava delle usanze e tradizioni della sua grande famiglia, che mi mandava foto e video della Romania quando andava dai parenti per le feste. Qui dove abito è presente una comunità albanese poco integrata, oggetto di pregiudizio e discriminazione. Il destino delle minoranze in certi luoghi in cui si ha paura dell’altro, del diverso da noi.
Perché hai scritto proprio questa storia?
Non lo so. Stavo scrivendo un altro libro che sembrava non voler proseguire oltre il primo capitolo. La mattina andavo a camminare per schiarirmi le idee, favorire la creatività. In uno di questi momenti ho sentito una voce nella testa. La voce di Nadia. Era il periodo in cui tu commentasti sotto a un mio post di Facebook di scrivere un romanzo. Ricordi? Sono per natura un’insicura, credevo di non farcela ma il tuo incoraggiamento ha acceso qualcosa dentro di me e ho buttato giù un incipit. Man mano mi accorgevo di avere come un’urgenza, mi affezionavo ai personaggi, alle loro vicende, e con mia grande sorpresa sono arrivata alla fine. Non credo ce l’avrei fatta senza la scuola di scrittura. Una guida, quando si scrive per la prima volta un romanzo, ci vuole. Un occhio imparziale in grado di vedere ciò che tu non riesci o non vuoi vedere. Devo molto a Genius in questo senso.
Come sei arrivata alla casa editrice?
Ho inviato il manoscritto e dopo poco più di un mese ho ricevuto la telefonata del direttore editoriale della casa editrice Dialoghi per la proposta di pubblicazione. Puoi immaginare l’emozione!
Io so che scrivi da molti anni, senza mai pubblicare, cos’è accaduto adesso che ti ha convinta a tentare con successo la via dell’editoria?
È vero, scrivo da molti anni ma è vero anche che per molti anni non ho scritto. Ero convinta di dover appendere la penna al chiodo, come si suol dire. Troppi rifiuti e stroncature. Una volta era la lingua che usavo a non funzionare, un’altra volta la storia. Con questo romanzo sono voluta andare fino in fondo e mettermi in gioco. È una storia che mi stava (mi sta) molto a cuore e poi con gli anni sono diventata meno suscettibile alle critiche negative. Mentre lo scrivevo davo da leggere qualche brano ai miei amici più cari, ne ricevevo apprezzamenti. Mia nipote me li chiedeva proprio! E questo mi ha incoraggiata.
Stai scrivendo qualcos’altro oppure sei soddisfatta così?
Scrivendo proprio ancora no ma ho un progetto in testa, questo sì. Perciò ci rivedremo presto!
Si dice che la scrittura sia un modo per far passare il tempo, una necessità, un gioco, e via così, cos’è per te scrivere, perché scrivi?
Vorrei poter dire che è un’urgenza, una necessità, la mia vita. Non è così. Io scrivo quando mi sento qualcosa dentro, un’energia, una voce che mi fa dire: “Di questo vorrei scrivere” quando mi imbatto in una persona o in un fatto interessante per me. In quel caso mi ci dedico con tutta me stessa, ci perdo il sonno e la fame.
Non posso pensare, almeno nel mio caso, alla scrittura come a un gioco perché spesso è una sofferenza. Giornate intere a fissare una pagina bianca, la mente vuota. Mi è capitato spesso mentre scrivevo La pazienza delle farfalle.