Tu non puoi decidere quello che ti manca, è qualcosa dentro di geometrico, resta spazio vuoto simmetrico, è un cono senza gelato, un pozzo senza fondo, uno specchio senza riflesso. Il vuoto prende la forma di quello che ti manca e tra la carne e le vene restano spazi vuoti.
Inizia più o meno così.
Chiudi gli occhi e schizzano fuori colori uno dopo l’altro e disegnano quello che ti manca e svaniscono. Ti concentri allora sull’udito, sussurri hey e ti abitui al suono che ti ritorna su dai vuoti lì che hai svuotato di quello che avevi, che so tipo a forma di cono o di testa. Dicevo, ti torna su il suono dalla trachea e allora tocca al gusto perché in effetti quel vuoto, quel pensiero che era colori ormai svaniti e consistenza, ora rimbalza e fa per uscire dalla bocca. Provi allora con il gusto a intrappolare il ricordo, perché il suono sa di dolciastro come un gelato pesante e stucchevole e ti rendi conto che quello che resta è la dolcezza che si fa amara e quasi ti viene un conato e dici ci provo, non l’ho mai fatto, ma così non posso andare avanti e passi al tatto e ti infili due dita in gola per completare l’opera e capire, funziona fino a un certo punto perché non vomiti niente altro che qualche schizzo di succhi gastrici. Manca solo l’olfatto per ritrovare almeno un pezzo di quello che ti manca, del cono, dello specchio, di un capello, di una sedia, di un tempo. Ma no, non puoi odorare una poltiglia simile, non ci troverai mai nulla. Ma non ne puoi più e avvicini il naso e sembra un inganno. Eppure, per un istante, senti l’odore di quel ricordo lì tra l’acidità e il dolciastro, ci metti le mani e trovi un sassolino nero, minuscolo, sferico, nero come cioccolato fondente. Ti guardi intorno, nessuno ti ha visto, apri la bocca e lo rimandi giù. Non sei tu a decidere quello che ti manca, ma puoi decidere di tenerlo sempre con te, sospeso nel vuoto tra la carne e le vene.