Non ci sono segreti da svelare. L’infanzia è dappertutto. Questo è il senso ultimo e profondo di questo libro che narra di un’estate feroce e vorace, dove accade tutto quello che deve accadere alla svolta d’angolo dell’adolescenza che inizia a virare verso l’età adulta. Lo scrittore ci porta dentro una storia, in un buco scavato nella materia organica della carne viva, con uno stile poetico e dolente e insieme a lui, siamo condotti tra palpiti, sospiri e confusioni, nel mondo di un adolescente che cammina sollevato da terra, senza telefonini e social media.
Il protagonista ha 13 anni, scrive poesie di cui è geloso, ma soprattutto vuole rendersi visibile con la sua passione per il calcio. In effetti è bravo, ma non abbastanza per farsi notare da chi conta e avere un futuro possibile nelle squadre importanti. Avere abbastanza talento è peggio che non averne affatto. La sensazione è quella di essere un eterno secondo, qualcuno destinato a faticare sempre per non arrivare mai sul podio. Questo tipo di talento, luminoso, al punto da essere insultante, ce l’ha Miguel, ribattezzato Michele dai genitori italiani, un ragazzino colombiano di 14 anni, appena un anno più di lui e le gambe guizzanti come frecce.
Michele è il genio naturale che straccia ogni avversario, e ogni capacità calcistica di fronte a lui scolora. Michele vive in una dimensione simbiotica con il pallone, individua traiettorie impossibili, fa goal con movimenti del corpo noti ai grandi campioni come Maradona, Pelè, Zidane, Baggio.
La sonnacchiosa vita estiva di Prato Verde, un complesso condominiale anonimo e tranquillo di provincia dove i ragazzini passano le loro pigre giornate estive innamorandosi, tradendosi e perdendo il filo della storia che sembrava andare in un senso e invece, inaspettatamente, va in un altro, viene stravolta dalla morte violenta di un ragazzo, evento tragico che segnerà la fine dell’infanzia, il territorio magico in cui tutti i desideri si possono realizzare, le ossa elastiche hanno un carattere resiliente destinato a perdersi, e il tempo sul calendario annuncia le piogge estive e la fine del mondo.
Ogni mondo incontaminato è destinato, quando incontra qualcuno o qualcosa di estraneo, a trasformarsi o semplicemente ad autodistruggersi. Ed è esattamente in quel confine traslucido tra realtà e possibilità che diventiamo adulti, anche se non vogliamo, anche se non ci piace. C’è una doppia vita, una reale, palpabile, e una vita che si annida tra i ricordi, sfuggente e densa come un’ombra. Il protagonista, anche dopo avere lasciato il mondo abitato dai suoi desideri, che lui sente colpevoli e invece sono semplicemente naturali, rimane ad aspettare risposte, qualcosa di esterno che ridia senso al tempo e all’amore inespresso, rimasto chiuso in gola come un boccone troppo grande che rischia di farlo soffocare. Da adulto, stressato e diviso tra l’asfissia del dovere e il bisogno dolce del ricordo, torna in quel luogo che lo ha visto bambino e adolescente confuso, in un percorso maldestro verso la ricerca di risposte che riannodino la sua anima frantumata. La storia di quell’estate ritorna prepotente alle labbra e sulla carta. La fine delle sicurezze che esplodono e ritornano, il tempo che si riavvolge e resta sospeso in aria, come la traiettoria del pallone di Michele, prima di entrare in porta. Nel presente, fatto di rughe e capelli diradati, si innesca di nuovo la spinta propulsiva del protagonista nel provare a diventare la persona che sognava di essere a 13 anni.
Non c’è una formula magica che possa ridarci integrità fisica e spirituale, esiste però la possibilità, attraverso la narrazione, di tradurre il cuore in parole, e di dare corpo a quella storia che ci tormenta il sonno, e che, dopo il disvelamento, diventa un dono.
“Il primo gol lo fece così: era a cinque o sei metri dalla porta, di spalle; dietro c’ero io, lo marcavo stretto, lo pressavo e gli tenevo le mani sulla schiena, colpendo con le mie ginocchia le sue cosce in una danza antica; le mie mani scivolavano sul tessuto liscio della sua maglia azzurra; sentivo il suo odore salire da sotto, un poco acre, vagamente selvatico, un odore di giungla, di predatore; registravo ogni cosa, vedevo la sua nuca sudata, i capelli corti e scurissimi spuntare dalle cute uno per uno, e perfino qualche gocciolina sui pori.
La libertà; la sensazione che il tempo fosse abbastanza per ogni faccenda, le monete da cinquanta o cento lire trovate per strada, il gelato dell’alimentari all’angolo, la sua lama fredda sulla lingua, l’ombra del pioppo sul prato incolto, sparso di chiazze ocra, i desideri di brace e di rugiada; i gol; gli insulti e gli abbracci; le scommesse; i giuramenti, le cadute; l’acqua gelida della cantina dopo aver sudato; le ginocchia sbucciate; le scarpe con le suole rotte; i braccialetti di stoffa; l’odore della resina addosso ai tronchi; il ticchettio delle auto parcheggiate durante le ore calde; l’eternità intorno a ogni cosa; l’estate”.