Città invisibili

Un viaggio immaginario in luoghi dagli echi familiari.

«Dai, raccontami delle gabbie alla libertà?» – Chiese la signora G alla donna che teneva ancora il rimbocco del suo lenzuolo in mano.

 

Fu così che iniziò.

La città di Lazzarìa è tutta fatta di scale.

Ci sono scale che scendono verso piani sempre più bassi, fin nel cuore della terra. S’incrociano, si sfiorano e sovrappongono per brevi tratti. Non si fermano mai allo stesso pianerottolo. Puoi trovarti a fianco qualcuno, sotto o sopra, di pochi gradini o nemmeno di uno. Mai alla stessa quota. Portano le persone vicine, vicinissime, arrivano a sfiorarsi nei tratti senza il parapetto, ma le distanze rimangono impossibili da annullare.

È una città dove piove sempre e il singhiozzìo rende l’aria irrespirabile, pregna com’è del dolore degli uomini. Discesi fino al cuore della terra, il caldo è insostenibile e il magma rumina bocconi di ferite nelle fauci dell’oblio. Qui iniziano le rampe in salita.

Le alzate aumentano, le pedate si stringono, l’ascesa diventa affannosa. La tenacia porta fino in alto, avanti a piccole porte bianche che, se valicate, affacciano a una luce cristallina che accarezza il respiro di una fresca brezza.

Se il coraggio manca, la scala torna a scendere fino a saziare il ventre dell’oblio.

Si dice che Lazzarìa sia una città di frontiera.

Logopolis è una città caotica.

Il silenzio è parola sconosciuta nella cacofonia che accompagna le ventiquattro ore dei giorni che scorrono. Sì, anche di notte!

Perché a Logopolis anche i sogni hanno parole e la notte confonde più del giorno il visitatore che passa per la città. È una città piena di verde, viali alberati e parchi con alti pini che coprono il cielo come una campana, col loro pacifico verde che cattura la diffusione dei suoni. A Logopolis è difficile mantenere segreti i pensieri, anche un pensiero malvagio o un cattivo sogno. Perciò l’udito degli abitanti è ovattato e la voce ha una variazione di toni tendente agli acuti, talvolta assordanti, per differire l’intenzione di comunicare direttamente con qualcuno.

Il viandante che si trova a passare rimane stordito dall’ammasso di suoni che lo investono così sovrapposti. Solamente gli autoctoni, ormai, discernono le parole a loro rivolte dai pensieri, che lasciano scorrere come brezza sulla battigia.

Nel sottobosco, folti cespugli sono curati da un giardiniere anziano con indosso paffute cuffie pelose che, tra i grigi capelli lunghi, strillano rosso fuoco. Coltiva i cespugli in una ragnatela a imbuto, in maniera concentrica dentro il grande pozzo della città, dove convogliano i pensieri più bassi, quelli cattivi per intenderci, in maniera che non volino all’altezza delle orecchie di nessuno. Ad affacciarsi dentro si rischia di affondare nell’agonia, dai gemiti e rimbombi di parole che perdono corpo mentre i fonemi si sviscerano in sordi lamenti.

Il visitatore va via in fretta, inseguito dal desiderio utopico di fare tacere ogni parola.

Ci sono due città gemelle, dove i suoni seguono le stagioni.

Si trovano agli antipodi dell’alfabeto, legate da una sincronia inversa.

I rombi dei motocicli assordano le notti, le urla del fruttivendolo pervadono le mattine assolate, il rimbombo dei bassi delle auto sfreccia scuotendo le finestre aperte, gli amici in strada parlano forte fino alle luci dell’alba come fossero sempre in scena. Nelle case spalancate, anche i sapori urlano forti: le bolle nell’olio intonano un ritmo tribale, l’origano batte sui cuori di pomodoro, foglie di basilico navigano nella salsa bofonchiante, fili dorati stillano il sole su ogni pietanza. I profumi si levano in danze che ancheggiano al palato e solleticano la libido, per esibire l’estate in una lunga performance teatrale, con una colomba bianca che banchetta serenamente coi grigi piccioni del pubblico della città di A.

Gli storni volteggiano figure sull’azzurro del giorno, come china su tele infinite ridipinte di viola dalle cicale la sera, in un frinire assordante e continuo per la platea assente di orecchi umani. Le finestre blindate dietro grate smaltate conservano il silenzio delle case infuocate dalla canicola, nella gemella Z.

D’inverno si capovolge.

Nella città di A è quasi un letargo, in cui si ritira dal primo freddo che l’abitante avverte pungente in ogni millimetro. Le voci si chiudono nelle case barricate per conservare il sole filtrato dai vetri al mattino e, assecondando il ritmo della luce, serrano gli scuri per lasciar fuori la brina della sera.

L’inverno risveglia la città di Z arruffata in un garbuglio di suoni. I clacson strombettano affamati, le sirene strillano per farsi strada, lingue e dialetti si mischiano in labili abbracci di circostanza, scontri tra le urgenze di tornare a casa proseguono muti e senza uno sguardo; solo i ferrivecchi combattono per abbattere confini, intonando alle donne “avvicinatevi con fiducia” a ritornello. Le mura delle case riaccendono odori e risate davanti a tavole di polenta inondate del ragù borbottante dall’alba delle domeniche, mani voraci affondano le carni tra i denti, fiumi di vino rallegrano le compagnie riunite a scaldarsi, la solitudine si schiaccia nei circoli ballando con la nostalgia.

C’è una città, a sud del globo, cinta da spine.

Ovunque si volga lo sguardo a Ficurinia le linee disegnano città nella città, dove i saggi dell’antica tribù di Opuntioidea mangiano i frutti dei cactus. Quelli cui non ti avvicineresti mai per le spine che li avvolgono dappertutto.

È ammaliante la cura con cui si avvicinano a quei frutti che nascono verdi e, chissà per quale strano dialogo tra sole terra e la linfa che li nutre, dalla stessa pianta il verde si trasforma in frutti che diventano rossi e arancioni e di un giallo verdognolo che sembra così impallidito da non dargli alcun valore.

Li catturano con uno stretto cilindro di latta che agganciano a un bastone. Un utensile rudimentale, all’avanguardia per la sua efficacia. Un po’ come la ruota che, pensa e ripensa, non la puoi perfezionare nella sua già completa assoluta efficienza allo scopo.

Li inforcano con i rebbi in maniera trasversale, ne separano gli ombelichi, per infliggere un taglio longitudinale che fa trasudare il frutto di goccioline vivaci. Procedono svellendo la buccia da una parte e roteando il frutto, che si stacca dall’abito voglioso di sedurre. Ma l’esperienza più intrigante accade quando dai un morso: i colori si rivelano in sapori completamente differenti, dando un’identità a quelle tinte.

Gli arancioni sono i più ordinari: hanno un sapore poco sfrontato, un po’ troppo ingenuo. Il rosso, invece, affonda in bocca con un calore avvolgente che ricopre il palato del gusto del magma nell’attimo prima dell’aridità della terra che ne rimane.

L’inatteso avviene con quello giallo-verde sbiadito, così indeciso: una vigorosa sferzata scatena in bocca una frescura inattesa che risveglia i sensi con un brivido vivace.

Ma la grande lezione di queste succose rivelazioni viene dai piccoli semi distribuiti tra la polpa: le inevitabili pause dalla masticazione amplificano il piacere: una successione di coiti, interrotti da gemiti di godimento, per non lasciare all’indifferenza tutto quel ben di dio.

A Ficurinia il pellegrino non può rimanere più di tre giorni. E non tornare mai più.

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