007, Un pugnale nel cuore

Il primo incontro fra James Bond e la protagonista di questo racconto. Sicuramente non l'ultimo.

La prima volta che ho visto James Bond era in piedi accanto a un tavolo da roulette, fasciato in uno smoking su misura, e sorseggiava un Vodka Martini. Stava passando al setaccio la sala con quei suoi occhi profondi e mi domandai se stesse cercando un nemico, un alleato o una delle sue molte donne.
Sapevo chi fosse come chiunque altro faccia questo tipo di mestiere, perché in fondo spie e malviventi non sono altro che pettegole con la pistola, perciò conoscevo il suo viso, la sua fama e le sue debolezze. Saperlo, però, non era come vederlo con i propri occhi. Nessuna foto poteva preparare a quel volto mascolino finemente cesellato e alla forza che emanava, nessun dossier poteva raccontare davvero di quel corpo muscoloso che si muoveva sinuoso sotto al tessuto e di certo nessuna diceria sarebbe bastata mai a spiegare il fascino magnetico di quell’uomo. I miei occhi si erano posati su di lui nell’istante in cui ero entrata in sala e continuavano a cercarlo ogni volta che vi tornavo, ma ahimè, ero lì per lavorare. Un galà non si manda avanti da solo, c’erano ospiti da accompagnare, piantagrane da buttare fuori e un capo che cambiava idea su tutto, anche su 007.
“Ignoralo” “Scopri perché è qui” “Allontanalo” “Indaga”.
Non aveva ancora deciso cosa fare con la sua inattesa presenza, ma fu Bond stesso a risolvere il problema.
Mentre lo superavo, mi sentii afferrare per un polso e quando mi voltai vidi che mi stava sorridendo. Fece scivolare la mia mano nella sua e la baciò.
«Non vorrei disturbarla, ma sembra che la fortuna mi abbia abbandonato e mi domandavo se non potessi rubare un po’ della sua». Mi disse, mostrandomi i dadi che stava per lanciare.
Come potevo rifiutare? A una voce così calda e a un accento così inglese, non si poteva dire di no. Soffiai sui dadi e vinse, perciò mi passò una mano intorno al corpo e mi chiese di farlo di nuovo.
Al diavolo i miei impegni, potevano fare a meno di me per qualche minuto.
«Dal momento che lavora qui, mi domandavo se per caso potesse aiutarmi a trovare una persona. Un vecchio amico, si chiama Alexander King». Mi domandò dopo un po’, scostandomi una ciocca di capelli dal viso.
Piegai per un momento il capo verso di lui, riflettendo.
Capivo bene perché tante donne facessero pazzie per lui.
«Mi dispiace, ma non ricordo questo nome. Può descriverlo? Sono più brava con i volti». Dissi alla fine.
«Brizzolato, occhi chiari e un sorrisetto compiaciuto perennemente stampato in faccia». Rispose scrutandomi attentamente.
Ridacchiai.
«Temo di non aver visto nessuno qui che somigli al suo amico».
Un lampo passò nei suoi occhi, ma non seppi dargli un nome.
«Un vero peccato, mi toccherà cercarlo altrove».
Stavo per fargli altre domande su questo amico, quando la mia attenzione fu attratta da un omaccione in smoking che sbuffava dal naso e mi guardava in cagnesco. Il modo di Boris per dirmi che era ora di tornare al lavoro.
Mi avvicinai di più a Bond e posai le labbra sul suo orecchio.
«Perché non beviamo qualcosa altrove, prima che sia costretta ad andare?»
Lo sentii titubare. Anche lui aveva delle incombenze più impellenti di cui occuparsi, ma non volevo ricevere un no come risposta, non da lui, non quella sera.
Incollai il mio corpo al suo e lasciai scivolare lentamente la mano sul suo petto fino a quando non
fu costretto a schiarirsi la gola per dirmi “fammi strada”.
La grande villa che ci ospitava aveva molte stanze, compreso uno studio con uno splendido tappeto Aubusson che faceva al caso nostro. Normalmente la mia filosofia era “prima il dovere, poi il piacere”, ma se il dovere finiva per impedire il piacere, ero aperta alle eccezioni. Lasciai cadere il mio abito e scoprii con quanta rapidità lui sapesse uscire dal suo smoking. In un attimo le nostre labbra si incontrarono e tutto il resto perse d’importanza. Sul quel tappeto dimenticai il mio nome, ma gridai il suo, persi di vista il mondo intero, ma imparai a memoria ogni centimetro del suo corpo e seppi perché ci fossero donne disposte a tradire il proprio Paese per lui.
«Direi che per stasera ti sei divertita abbastanza, hai un lavoro da portare a termine». Gracchiò una voce austera nel piccolissimo auricolare che avevo nell’orecchio.
Purtroppo io non ero il tipo di donna che dimentica tutto per un uomo.
Mi alzai e lui capì al volo.
«Immagino tu debba tornare al lavoro».
«Sei un uomo molto perspicace, James». Risposi mentre mi aiutava a rientrare nel mio abito «È un vero peccato che debba finire così». E mi sfilai il lungo spillone d’acciaio dai capelli.
Forse fu il tono della mia voce a tradirmi o forse il bagliore del metallo, ma riuscì a spostarsi quanto bastava perché gli trafiggessi la spalla anziché il cuore.
D’istinto mi spintonò via e guadagnò tre passi di distanza.
«Devo dedurre che il signor King mi manda i suoi saluti?» Chiese con una nota di amarezza nella voce.
«Mi dispiace, James, ma al mio capo non piacciono gli imbucati».
Sorrise, un sorriso bellissimo e pericoloso.
«Tanta bellezza e tanto talento nel mentire in una sola donna. Straordinaria!»
«Errore, 007», dissi afferrando un tagliacarte dalla scrivania «Il signor King non si è fatto vedere al
galà, perciò non ho mentito».
Lo lanciai verso di lui e per mia sfortuna feci più male alla camicia che a lui.
«Dov’è l’hard disk?» Mi domandò con una smorfia, tenendo una mano sul nuovo taglio.
«Non era sotto al mio vestito, Mr. Bond?» domandai ironica prendendo la rivoltella dal cassetto del
tavolino da fumo. Speravo di finirla sportivamente, ma non avevo più tempo per giocare.
«Lì sotto ci sono cose meravigliose, ma non quello per cui sono venuto». Disse con un sorrisetto sulle labbra.
Faceva venire voglia di baciarlo e di ucciderlo.
«Così mi spezzi il cuore».
«E tu il mio». Rispose mentre io prendevo un cuscino per attutire il rumore dello sparo.
«Era destino che fosse una donna a ucciderti e la fortuna è toccata a me».
Prima che potessi sparare, però, un coltello da lancio sfuggito alla perquisizione si materializzò nella sua mano e volò verso di me.
Mi trafisse il petto con forza e tanto bastò a farmi colpire la finestra con tutto il mio peso. Il vetro andò in frantumi e, prima che il vuoto mi abbracciasse, lo vidi lanciarmi un ultimo sguardo colmo di amarezza e rimpianto. Forse avrebbe voluto fermare il tempo su quel tappeto e lasciare che qualcun altro salvasse il mondo o forse avrebbe preferito non incontrarmi mai.
Chissà.
Io, d’altra parte, non ero pentita nemmeno mentre precipitavo per tre piani, sulla gelida neve.
Perché la verità è che il pugnale mi aveva mancato di poco il cuore, lo sapevo io e lo sapeva lui, e la neve era abbastanza da attutire la mia caduta e abbastanza gelida da rallentare l’emorragia fino all’arrivo dei soccorsi.
Lo sapevo io e lo sapeva lui.
La partita non era chiusa.
In fondo, questa è la storia del mio primo incontro con 007, non dell’ultimo.

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