Mai più. Mai Più.
Lo ripetiamo ogni volta che sentiamo di un massacro. Lo diciamo commuovendoci sui titoli di coda di Schindler’s List, Hotel Rwanda, La sposa siriana. Poi si riaccendono le luci in sala, o una piattaforma di streaming ci propone il titolo del film di cui tutti parlano, e la vita va avanti.
Leggiamo sui libri di storia, guardiamo le foto in bianco e nero di corpi ammonticchiati o di sopravvissuti tutti nervi, denti, guance scavate, occhi già morti. Hanno qualcosa che ce li rende irreali. Un po’ ci sentiamo al sicuro, è successo tanto tempo fa in fondo, un po’ ci chiediamo, sgomenti, come sia stato possibile che succedesse quello che è successo e che cosa facevano intanto, le persone normali, mentre i cattivoni uccidevano innocenti. E lo ripetiamo: mai più. Mai Più.
Scorriamo la bacheca di un giornale online o il feed di Instagram e, fra la polemica del giorno, un meme e gli psicodrammi di una politica che non sa più come coprire la sua incompetenza a ogni latitudine, spunta una fotografia. Ferma sotto i nostri occhi un’esplosione, una donna che piange tenendo fra le braccia un fagotto di lenzuola e sangue, un cumulo di macerie che copre di grigio quello che fino a quattro mesi fa era un ospedale, un parco, un asilo, una casa. Con aria rassegnata, con un senso di straniamento che rende nebuloso un dolore insopportabile, torniamo a rifugiarci nel passato e giurare che Mai Più. Mai Più. Ecco, deve essere questo che facevano le persone normali anche allora. Stordite, impotenti, guardavano ancora più indietro e dicevano Mai Più. Dicevano che questa di oggi è una parentesi, ma magari poi comunque esagerano, o se la sono cercata. Magari è questo che fanno quelli normali, mentre i cattivoni perpetrano orrori: cercano di dare un senso alle profondità del male di cui l’essere umano è capace. Lo sminuiscono, lo giustificano quando si fa troppo vicino. Però da domani, dalla prossima volta, sarà un Mai Più. I migliaia di morti di oggi diventano un numero, perché i numeri sono più sopportabili, anche quando sono a cinque cifre: basta non dare nomi, volti, storie, desideri a quelle vite che da un minuto a un altro hanno smesso di esistere e, se sopravvivono, lo fanno a costo di sofferenze enormi. La giornalista palestinese Bisan Owda, che come altri preziosi reporter sta documentando ogni giorno dalla Striscia di Gaza, in un video particolarmente intimo affidato ai social (la trovate come @wizard_bisan1) si chiede se si senta fortunata oppure no a essere ancora viva, con tutto ciò che ha perso, casa, futuro, affetti.
Va bene allora, prendiamo le distanze. Guardiamo al passato. Guardiamo a un evento accaduto quasi cent’anni fa in Armenia. Lontanissimo, vero? Perfetto. A questa distanza di sicurezza, ascoltiamo la voce di chi, nel 1915, bambino, ha vissuto la sopraffazione, il terrore, una innaturale abitudine a camminare in mezzo a corpi in decomposizione e parlare di stupri, le marce infinite sperando di raggiungere, prima o poi, un rifugio sicuro in cui riposare solo un momento.
L’alfabeto dei piccoli armeni di Sonya Orfalian (Sellerio) ha raccolto testimonianze di sopravvissuti a un genocidio. Le voci che scorrono fra le pagine, voci che per tutta la vita sono rimaste bambine, minuscole di fronte al trauma, risuonano dello stesso orrore con cui ancora oggi, in quanto umanità ferita, non riusciamo davvero a fare i conti. Ascoltiamole, queste voci, queste vite che non sono numeri, non sono lontane, sono tutte intorno a noi, lo sono oggi, in questo momento. E che ci riguardano, una per una.
Buona Lettura!