Nei capitoli precedenti:
- Capitolo 1 – Il sorpasso
- Capitolo 2 – Frontiere
- Capitolo 3 – In caso di morte
- Capitolo 4 – Terra di nessuno
- Capitolo 5 – Dentro
- Capitolo 6 – Bestialità
- Capitolo 7 – Droni
- Capitolo 8 – Sirene
- Capitolo 9 – Odessa
- Capitolo 10 – Bilanci
- Capitolo 11 – Mansplaining
- Capitolo 12 – Rete di sicurezza
- Capitolo 13 – Cibo da ridere, cibo da piangere
- Capitolo 14 – Maglie
- Capitolo 15 – Il Gambero Rotto
- Capitolo 16 – Suoni
- Capitolo 17 – Taxi
- Capitolo 18 – Fame
- Capitolo 19 – Congelare
- Capitolo 20 – Punto di vista
- Capitolo 21 – Colori
- Capitolo 22 – V
- Capitolo 23 – Ragni
- Capitolo 24 – Cani
- Capitolo 25 – Parole
- Capitolo 26 – Fotografia
- Capitolo 27 – Silenzi
- Capitolo 28 – L’uomo rosso e la dama nera
- Capitolo 29 – Foglio bianco
- Capitolo 30 – Pelle
Trentunesimo capitolo – Scelte
Entro allo stadio Olimpico per ritirare un premio per il Palazzo del Freddo. Lato tribuna stampa, un lunedì freddo di inizio inverno in cui ti manca l’estate.
Ritiro il premio di una rivista che si occupa un po’ di tutto nel mondo del cibo: chef, vini, gelati, panettoni e organizza tre giorni di eventi e degustazioni qui all’Olimpico. Oggi, insieme a me che ritiro il premio, un’associazione di gelatieri organizza un concorso sul gelato.
Sono giorni complessi. Il 2023 sta per finire, l’Ucraina mi ha lasciato con dei pezzetti rotti che non ho ancora ricucito. Inoltre, come al solito nelle situazioni come quelle di oggi, mi sento un pesce fuor d’acqua. Eppure sono qui. Mi sono portato il freddo appresso, così indosso una grossa felpa con cappuccio tirato su, occhiali neri e jeans neri e stivali neri, tipo funerale.
Mi ritrovo a pensare che il concorso sul gelato sia il morto e la rivista che ospita tutto questo circo la bara.
Incrocio qualche gelatiere, giacche bianche stirate, coccarde, cappelli alti lunghi, guance rosse sotto occhi lucidi in stato di estasi per la gara.
Qualcuno lo conosco di vista, ma loro non hanno radar attivi su chi, in queste giornate di sfida, non indossa i panni del maestro di bianco vestito, quindi non mi riconoscono.
Attraverso la sala, l’organizzazione della rivista ha allestito qualche stand di cibo per attrarre il pubblico, durante le tre giornate le persone possono mangiare, assaggiare e bere.
Ci vorrebbe pure una zona per scopare. Ti ritiri il premio e ti fai una sveltina, così, per scaricare la tensione. Non mi stupirei, qua il cibo è tipo un oggetto del desiderio, uno studiarsi reciproco a chi fa meglio, a chi appare migliore, che male farebbe una zona per scopare e scaricare la tensione accumulata?
Un intenso odore di formaggio mi stordisce, caprino credo, puzza da morire e mi manda via l’idea della zona a luci rosse. Quasi ho un conato. Mi torna in mente quando in Ucraina ingerii quel foglietto.
Esco, la sala in cui è tutto allestito dà sulla tribuna stampa, un po’ di gente è fuori a fumare, per lo più qualche agente di vendita e qualche gelatiere per la gara.
Lo stadio Olimpico invece è vuoto; il prato dove di solito corrono i calciatori, privato del tifo, non c’è dubbio appaia spoglio e mortifero.
Un enorme contenitore vuoto, verde al centro, con dieci grosse lampade che se ne stanno immobili, riscaldano il prato con una luce gialla per evitare che il freddo rovini e secchi il manto erboso.
Penso alle manine di Amelia quando mi toccano il viso, hanno lo stesso effetto su di me.
Mi siedo su un seggiolino. Tanto c’è un po’ da attendere per la premiazione e mi interessa poco arrivare in ritardo. O forse no, forse lo faccio di proposito. Sono in anticipo ma voglio entrare in ritardo. Perché in effetti sono qui solo per quella parte di me che sta svanendo, quella in cerca di consenso. Inoltre, buffo e mi fa sorridere, da qualche parte, insieme ai gelatieri del concorso, c’è mio nonno. Lui è nell’organizzazione, non fa gelato, partecipa solo come giurato.
Sono certo che gli altri lo prendono in giro perché ha avallato la vendita del Palazzo del Freddo. Non che l’abbia venduto da solo, anzi, ma non mi piace che lo prendano in giro, o in realtà non mi piace che la gelateria sia considerata coreana, perché non lo è. O ancora meglio, finché ci sarò io, non potrà mai essere considerata coreana.
È un insulto al mio bisnonno considerarla coreana, ma tant’è, io posso solo riparare a questa follia.
Guardo il mio nonno che se ne sta seduto tra questi gelatieri, credo che nell’immaginario di questi professionisti gli faccia comodo avere un Fassi di novant’anni per amico, indebolito dal tempo, per giunta arrabbiato e con l’onta coreana sulle spalle.
A me, infatti, non si avvicinano. Hanno un po’ annusato e poi, via. Succede sempre così nel mio lavoro, nella mia vita. Restano davvero in pochi e di quei pochi, pochi mi vedono davvero. Meglio.
Guardo il prato e le lampade. Se esistesse la reincarnazione, io sarei la reincarnazione del mio bisnonno. Non per capacità, sia chiaro, ma per le intenzioni.
Lui voleva essere ricordato per aver creato qualcosa di unico e ci è riuscito, se sapesse che chi è venuto dopo ha preferito vendere quello che lui ha creato probabilmente direbbe: “Era ovvio, chi è all’altezza di una roba simile? Come me non c’è nessuno”.
Lui sapeva quello che stava facendo. Non una ricetta, ma l’idea di un’azienda che rendesse felici le persone e, soprattutto, che le facesse sentire alla pari: questo è il gelato.
Penso anche che aleggiasse in lui il desiderio di rimanere nella memoria delle persone, di tante persone sconosciute.
E io pure voglio questo.
Le grosse lampade immobili scaldano il terreno, io ho lo sguardo perso nel giallo della loro luce, qualche curioso mi gira intorno per guardare più da vicino l’erba. Mi sembra di sentire il boato dei tifosi.
Mi alzo, in fondo io qui proprio non c’entro nulla. Inizia a far freddo e il tempo passa ed è ora di entrare. La sala interna si è riempita di gente.
Individuo mio nonno seduto vicino a Giolitti, chiacchierano da buoni amici, alla fine un rapporto l’hanno creato loro due, accantonata quella vena di rivalità antica perché ormai hanno obiettivi comuni. Ma io lo so, lo leggo negli occhi di entrambi che, nel profondo insondabile, una scintilla dentro di loro si augura di essere un po’ di più dell’altro. Io li supero, saluto da lontano ma non mi vedono e procedo verso la sala dove ritirerò il premio.
All’ingresso mi viene incontro Irina, una delle ragazze che si occupa dell’organizzazione. Ha due occhi enormi blu e mi saluta con un sorriso, le arriverò sì e no alla spalla. Conosco lei e il marito da tempo e la sua gentilezza, riassunta in un perenne sorriso bianco, sembra genuina pur essendo immersa in un contesto formale.
La sala della premiazione è grande, saranno cento posti, sedie schierate verso il palco che ha una pedana e due microfoni da terra. Mi siedo di lato, con cappuccio annesso, e mi guardo intorno; vedo gelatieri che conosco, questi qui, questi gelatieri e pasticcieri presenti per questo riconoscimento, non appartengono alla categoria degli amici di mio nonno. Alcuni di loro qui, non tutti, sono la leva futura del gelato, gelatieri che non fanno associazionismo e vivono di idee e futuro, amano il gelato in modo pulito. Li sento più simili a me caratterialmente, un po’ tormentati, un po’ perduti, con energia che li porta su e giù d’umore.
Peccano solo del desiderio di apparire attraverso i premi che gli vengono riconosciuti. Ma su questo faccio un passo indietro. Chi viene fuori dal nulla in questo settore, non come me che sono figlio d’arte, deve sgomitare. I riconoscimenti di riviste gastronomiche e i siti internet sul cibo sono utili per galleggiare. Mi viene un altro conato. Certo, queste realtà che scrivono di ristoranti, gelaterie, pasticcerie, enoteche e valutano la qualità creano una cortina dorata estromettendo il grosso delle persone, quelle che non possono permettersi di vedere il cibo trasformarsi in una moda costosa. Un altro conato. Mi guardo di nuovo intorno, ma che mi succede?
Per fortuna nessuno si è accorto di niente, tengo la mano davanti alla bocca. Il mio corpo mi sta dicendo qualcosa che non riesco a cogliere.
Respiro con movimenti lenti del petto, inspiro con il naso ed espiro con la bocca. Sembra che così passi tutto.
Appena stacco la mano dalle labbra, due gelatieri mi sfilano accanto e mi riconoscono. Mi alzo per salutarli, mi salutano, mi abbracciano, sembrano felici di vedermi. Poi tirano dritti.
Io non c’entro niente qui. Mi sa che me ne vado, penso. Perché sono venuto? Non può essere solo per un po’ di visibilità.
Domitilla ha insistito perché io venissi, sostiene che è il mio lavoro, che snobbare non è il modo per combattere qualcosa che non mi piace. La sua buona fede cozza con la profondità del mio disagio.
Un voce al microfono mi interrompe:
– Per la sezione gelateria, questo riconoscimento per il lavoro svolto e per la qualità difesa nella produzione di gelato artigianale è un traguardo importante per tutti voi presenti. Ed ecco i nomi!
Non mi ero accorto che una donna fosse salita sul palco e avesse iniziato a distribuire i riconoscimenti. La sua voce manda in mille pezzi i miei pensieri. Aspetto il mio turno, sbloccando e bloccando lo schermo del telefono con le dita.
– Gelateria Fassi, Palazzo del Freddo.
Ogni premiato deve dire due parole, un breve discorso almeno, così hanno fatto quelli prima da quanto ho sentito mentre ero immerso nei pensieri. Di solito, quando non ascolto, riesco a carpire comunque pezzi salienti dei discorsi altrui. Così elaboro velocemente due parole da dire.
Salgo sul palco, alla fine è questo il punto. Ogni occasione in cui, fosse anche solo per una sala in cui ci sono cinquanta persone, io divento visibile, pesco l’attenzione della gente, ecco, lì c’è la risposta. Traslare dalla sfera invisibile a quella visibile attraverso il riconoscimento è eccitante, il gelato mi manifesta, è un luogo sicuro, è il luogo per cui sono riconosciuto da sempre.
Prendo il microfono, sorrido. Penso a chi mi vede anche quando sono al buio, nascosto chissà dove.
– Beh, devo dire che sono felice per una parola utilizzata all’inizio da chi ha presentato il premio, – l’unica che ho sentito, penso, – Ha definito questo, – indico la targa che una ragazza sul palco mi ha messo in mano, – “Un premio che non vuole essere una classifica, che non c’è un migliore o un peggiore di voi, ma solo un lavoro riconosciuto”, ecco, questo è il motivo per cui questa mattina sono qui e non sto scrivendo le mie memorie al freddo di una cella frigorifera.
Vedo e sento ridere, funziona sempre la battutina tirata lì, inaspettata.
– Scherzi a parte, grazie, non dovremmo gareggiare mai usando il gelato, o il cibo in generale. Vincere nel nostro lavoro è dare felicità alla gente, non un esercizio di stile per il nostro ego. Grazie.
Scendo dal palco, cammino dritto verso l’uscita. Parlo di ego e mi riempio la bocca, ma io del mio ego cosa ne faccio? Mentre esco dalla porta la luce si spegne e un velo di aria fredda mi avvolge.
Alzo gli occhi, non c’è più nessuno. Davanti a me c’è solo la vecchia con gli occhi scavati, quella che ho visto in Ucraina, quella che mi perseguita, quella a cui non posso sfuggire. Intorno è tutto buio. Indietreggio. Lei avanza.
Mi appoggio al muro, avanzo e tasto fino a che non trovo una porta ed entro per nascondermi. Un bagno, sento il respiro della vecchia alle mie spalle, ma come ogni volta la paura supera il desiderio di guardarla negli occhi.
Ho un altro conato e butto la testa dentro il lavandino, apro l’acqua, strizzo gli occhi più che posso e mi sciacquo il viso. Quando li riapro la luce è tornata, la vecchia ombra non sembra esserci più.
Ho questi suoi occhi che mi seguono ovunque, come se sapessero tutto di me, come se non potessi nascondermi. Scivolo a terra e appoggio la schiena sul muro, come fa a trovarmi ovunque?