“L’invincibile estate di Liliana” di Cristina Rivera Garza (Sur)

“Se solo non fosse andata a studiare Architettura a Città del Messico, se non avesse avuto tutta quella libertà, se non avesse scelto il ragazzo sbagliato”.

Annaspare dentro le parole per cercare risposte ma soprattutto giustizia, quella che Liliana, uccisa a poco più di vent’anni, a Città del Messico, nel luglio del 1990, non ha avuto, anche se le forze di polizia e tutti gli indizi convergevano verso l’ex fidanzato, geloso e paranoico. Cristina decide di ripercorrere la vita della sorella minore, la sua unica sorella, attraverso ricerche scrupolose dei suoi quaderni e di poesie, lettere, appunti sparsi, testimonianze dei suoi amici e colleghi di Università. Perché Angel, il sicuro assassino, scappato prima dell’arrivo della polizia, non è stato inseguito, braccato, arrestato e processato? Probabilmente perché il momento storico in cui il femminicidio di Liliana è avvenuto era ancora un momento in cui il machismo messicano solidarizzava poco con la vittima, ritenendola in tutto o in parte responsabile del suo assassinio. “Se solo non fosse andata a studiare Architettura a Città del Messico, se non avesse avuto tutta quella libertà, se non avesse scelto il ragazzo sbagliato”, sono queste le cose che aleggiano intorno al corpo senza vita di Liliana, e che continuano a essere dette a mezza bocca, anche dai poliziotti e dai giudici, alle spalle dei genitori affranti e sconvolti e della sorella.

Ecco perché Cristina, dopo 30 anni, decide di chiedere la riapertura del fascicolo di Liliana, quando il senso di vergogna e di paura si sono un poco attenuati. La perdita e la rabbia dolente sono intatte, così come è intatto l’amore per Liliana, una ragazza che aveva un sentire profondo, che comprendeva con una sensibilità poetica il bisogno di indipendenza e contemporaneamente l’amore romantico. La colpa di Liliana è stata quella di essere una donna libera, una che non vuole essere schiacciata nel ruolo subalterno riservato alle donne, ma senza presunzione, senza nessuna arroganza. Liliana voleva solo vivere e amare a suo modo. Lei e Angel, il suo assassino, erano stati insieme alle superiori, si erano lasciati e poi si erano rimessi insieme, a singhiozzo, quando lei era andata ammessa all’Università. Lui aveva fallito il test d’ingresso ed era rimasto relegato al destino familiare di un negozio. La rabbia per la perdita di controllo sulla mente e il corpo di Liliana poi hanno fatto scattare una paranoia che lo ha spinto a pagare dei ragazzi per controllarla, cosa che sarà usata per porre fine alla vita della ragazza in una notte di metà luglio del ’90.

In questo libro c’è l’immagine di Liliana più viva che mai, che emerge a tratti dalle sue stesse parole, immersa nell’eterna estate della sua giovinezza, nella luce accecante e luminosa che spandeva a fiotti su tutti quelli che le stavano intorno. L’estate, per me, oltre che una stagione della vita, corrisponde a un modo di sentire, un moto del cuore, una propensione a guardare sempre il lato luminoso delle storie, a trovare positività anche nelle persone più cupe. Per questo Liliana non ha saputo capire la furia omicida di Angel e a sfuggirle, perché non vedeva il pericolo, non si aspettava la cattiveria. Ma non può essere una colpa essere buoni, fidarsi delle persone. Perché in fondo il male fa questo: ritorce contro la vittima i suoi pregi, il suo modo di vivere, per screditarla e renderla responsabile o corresponsabile del suo omicidio.

Questo libro è il memoir scritto da una sorella mai rassegnata, ma è anche la storia, appassionata, di una ragazza, e potrebbe essere la storia di molte di noi, noi che vogliamo essere noi stesse, qualunque sia il nucleo della nostra essenza, noi che fatichiamo per trovare autenticità e non ci accontentiamo di appartenere a un padre, a un marito e nemmeno a un Dio, noi che siamo pronte a gridare che siamo libere, che abbiamo il diritto di scegliere chi amare e come e quanto.

 

“Siamo qui con il peso incantato dell’esistenza e la leggerezza, la placida leggerezza del sogno, perché abbiamo molte cose da dire, fare, pensare, ricreare; perché il nostro punto di vista è nuovo per una storia che lo ha rifiutato, usurpato, centinaia di migliaia di volte, perché dobbiamo dire: Adesso basta! Né il dogma dell’amore, né quello della fama o del denaro potranno distruggere qualcosa di molto più saldo e innocente al tempo stesso: il desiderio insensato, timido, impetuoso di vivere, di vivere e creare un altro vivere, qualcosa di più bello, qualcosa di più giusto. Per questo abbiamo voce e mani”.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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