La borsetta di Dorina

Era di pelle bianca, a tracolla. Gliel'aveva portata suo padre dalla Turchia e conteneva tesori e segreti.

Ogni martedi pomeriggio veniva una signora a fare le pulizie a casa nostra.
Aveva un marito camionista sempre lontano per lunghi viaggi e una figlia poco più grande di me: quando ne parlava si capiva che le dava qualche preoccupazione perché la chiamava “quella tremenda della Dorina”.
Una volta, per non lasciarla a casa da sola, se la portò dietro.
Nell’ingresso Dorina, dall’alto dei suoi tredici anni, mi squadrava con sufficienza masticando una gomma con le labbra scintillanti di lucido rosa. Mi sembrò già grande, con la minigonna di jeans e gli zoccoli, zoccoli che andavano di gran moda e che mia mamma non mi aveva mai voluto comprare perché diceva che rovinavano i piedi. Teneva una mano su un fianco e l’altra agganciata a una tracolla da cui pendeva una scintillante borsetta di pelle bianca.
“Questa me l’ha portata mio papà dalla Turchia” Mi fece, accarezzandola con orgoglio.
Sentendomi piccola e un po’ goffa, con le ciabatte e un vestitino a salopette, mi feci coraggio e la invitai in camera mia. Buttandosi sul letto senza alcun riguardo, Dorina mi disse che dei giochi non le importava più niente, che ormai era grande e che aveva un fidanzato di quattordici anni che aveva già più volte baciato sulla bocca.
“Posso provare la tua borsetta?” Chiesi per cambiare discorso.
Dorina se la tolse e me la lanciò al volo, ma persi la presa e la lasciai cadere.
“Stai attenta, scema, è nuova! E non aprirla” Mi urlò dandomi le spalle mentre già stava frugando nel cassetto della mia scrivania dove, sembrava che lo sapesse, tenevo i miei tesori e il diario segreto.
Raccolsi la borsetta con delicatezza e la accarezzai: era incredibilmente morbida e aveva lo stesso profumo dei quaderni non ancora scritti.
Intanto Dorina sghignazzava leggendo del mio amore segreto per un compagno di scuola e borbottava: “Scema, ma quello non sa nemmeno che esisti”.
Poi buttò per terra il mio diario e mi strappò la borsa dalle mani. “Qui dentro c’è la foto di me e il mio ragazzo che ci baciamo con la lingua”, mi fece stringendosela sullo stomaco e rimettendola a tracolla. “Ma mia mamma non lo sa. Quando esco con lui le dico che vado da una mia amica. Solo che oggi mi è toccato di venire qua a rompermi.”
Era evidente che con me si annoiava. Le proposi di giocare a Barbie ma non ne volle sapere, allora di ascoltare le fiabe sonore, ma nemmeno quelle le interessavano minimamente.
“Io da grande farò l’indossatrice”, si vantò; “Se vuoi posso insegnarti come si fa” E, prima che potessi dire sì o no, aprì l’armadio e cominciò a tirar fuori tutti i miei vestiti buttandoli sul letto. Preoccupata al pensiero di quello che avrebbe detto mia madre, tentai di fermarla, ma lei mi avvolse una sciarpa in testa come turbante e sballottandomi come un manichino iniziò a infilarmi i vestiti uno sull’altro.
“Adesso devi sfilare come faccio io”, mi disse, mostrandomi come si camminava ancheggiando e piroettando avanti e indietro nella stanza.
Ma quando tentai di imitarla si spazientì subito: “Che scema, ma non sai nemmeno camminare, come farai a fare la modella? Idea! Ci vuole un po’ di trucco!”
Mentre le dicevo che purtroppo i trucchi non li avevo ancora, lei era già partita alla ricerca del bagno. La trovai che tirava fuori dall’armadietto gli ombretti e i pennelli di mia madre, che per me erano tabù.
Mi spennellò per un bel po’ la faccia con l’aria di chi la sa lunga, mi fece piangere un occhio piantandoci lo spazzolino del mascara, abbondò con il rossetto e infine mi mise davanti allo specchio.
Non mi riconoscevo, ma era bello avere una faccia diversa e mi sentivo quasi bene quando, studiandomi con occhio critico, mi liquidò con un: “No, anche col trucco sembri una povera scema”. “Bambine, dove siete finite? È pronta la merend…” Fece mia madre aprendo la porta del bagno e restando impietrita alla vista della mia faccia e di tutti i suoi trucchi sparsi nel lavandino. Mentre Dorina sgusciava in mezzo a noi per correre in cucina da sua madre, lei sospirando mi disse solo: “Adesso lavati la faccia e vieni di là, poi ne parliamo più tardi”.

Quando arrivai in cucina dopo il tempo infinito che mi era servito per ripulirmi, Dorina e sua madre non c’erano più: erano dovute andare via in tutta fretta perche il padre, partito quella mattina per un viaggio di diversi giorni, aveva avuto un guasto al camion e stava ritornando a casa.

Mia madre non si arrabbiò con me per i vestiti né per i trucchi: mi conosceva bene e aveva capito perfettamente di chi era la colpa di tutto quel caos.
“Sono fortunata io ad avere te” Diceva mentre liberavamo il letto dai vestiti buttati alla rinfusa. “Povera donna, ora capisco perché dice sempre che sei un tesoro di bambina. Fa il confronto con la sua! E ora dormi, bimba, che domani c’è la scuola!”

Rassicurata ed esausta, mi infilai a letto e piombai nel sonno.
La mattina dopo mi svegliò uno scampanellare insistente. Sentii una voce concitata che si scusava per l’ora e poi mia madre che diceva: “No, di sicuro qui non c’è, ieri sera abbiamo rimesso in ordine e l’avremmo trovata. Deve averla persa dopo, nel tragitto verso casa. Dorina, su, non piangere, vedrai che la ritrovi!”
Nell’ingresso vicino a sua madre, Dorina era molto diversa dal giorno prima: spettinata, la faccia rossa e un filo di muco che le colava dal naso. La modella dispotica era sparita, lasciando il posto a una bambinona frignante.
“La bor…setta… di mio pa…paaa…l’ho persa…” Singhiozzava.
Non seppi cosa dirle, così borbottai che facevo tardi a scuola e scusandomi mi avviai in bagno. Nella cesta dei panni sporchi, al sicuro sotto uno strato di asciugamani umidi, la borsetta di Dorina brillava del suo bianco splendente.
Ce l’avevo nascosta io la sera prima, quando con grandissima sorpresa l’avevo vista penzolare alla maniglia della porta del bagno, probabilmente messa lì da Dorina durante la sua furia cosmetica e poi dimenticata.
Tirai delicatamente la patta, che con un “clac” ovattato si aprì. Dentro c’erano i tesori di Dorina: uno specchietto, un lucidalabbra rosa, un pacchetto di gomme e una Polaroid, in cui lei e un ragazzino bruno stavano impalati, uno di fronte all’altra, con la punta delle rispettive lingue che si toccavano.
Rimisi le cose nella borsetta, mi levai il pigiama e me la infilai a tracolla, a contatto con la pelle nuda. Era liscia, morbidissima e mi faceva fresco sulla pancia.
Sopra misi la canottiera, una maglietta, la salopette e infine il grembiule di prima media. Nell’ingresso salutai mia mamma con un bacio, oltrepassai Dorina e sua madre, ancora sulla porta di casa, e ancheggiando, come una ragazza grande che sa baciare, mi incamminai verso la scuola.

Condividi su Facebook

Maria Giulia Benini

Maria Giulia Benini è nata e vive a Ravenna. Laureata al Dams di Bologna, appassionata di fotografia e arti visive, trova che scrivere sia una fatica bestiale. Nonostante si ritenga un tipo sensibile e spirituale, quando scrive è portata a raccontare storie buffe; è lei stessa a credere con forza che vedere un lettore che ride sia la più bella ricompensa che si possa immaginare.

Tag

Potrebbe piacerti anche...

Dentro la lampada

Ritorno

Una vecchia foto fa riaffiorare tutte le emozioni del primo amore.

Leggi Tutto
Apri la chat
Dubbi? Chatta con noi
Ciao! Scrivimi un messaggio per dirmi come posso aiutarti :)