“Lasciarsi cadere” di Lidia Yuknavitch (Nottetempo)

Attorno a una fotografia vediamo pezzi di storie di chi cerca di riparare al dolore, una poetessa, la stessa fotografa, che non si dà pace per non aver aiutato una bambina, lasciata lì dopo lo scatto.

Il legame tra immagini e parole è talmente forte che, quando vediamo uno scorcio di sorriso, o di dolore, possiamo immaginare di avere un legame con la storia che si svolge oltre lo scatto, oltre l’attimo reso eterno. Succede che una fotografa si trovi a immortalare un’immagine terribile ed espressiva, una famiglia che salta in aria a causa di una bomba in una guerra in un Paese a est, e di quella famiglia rimanga come unica traccia l’espressione incredula, orrificata della bambina, la sola superstite. La bocca sgranata in un urlo devastante, che sembra oltrepassare i confini di spazio e tempo e irrompere nella terra abitata da svettanti grattacieli delle agenzie di stampa e di pubblicità, delle persone che permettono al mondo di nutrire desideri ed emozioni perché esistono storie come quelle della bambina. Di lei, della bambina, sappiamo che ha un corpo devastato dalle violazioni dei soldati arrivati lì a rendere la terra rossa di sangue, sappiamo che ha fame e ha freddo e fa di tutto per trovarsi una tana o un nido. In attesa.

Da quella fotografia si dipana la storia, in una ibrida mescolanza di memoir e romanzo, di chi cerca di sopravvivere alla perdita di una bambina nata morta, una scrittrice che ama donne e uomini con la stessa intensità, consumata dalla mancanza di parole e dall’aridità che le impedisce di comunicare con il marito e con il figlio. Attorno alla foto vediamo pezzi di storie di chi cerca di riparare al dolore, la poetessa, la fotografa stessa, che non si dà pace per non aver aiutato la bambina, lasciata lì dopo lo scatto che le ha fruttato complimenti e premi, il regista, marito della scrittrice insonne, e il pittore.

I legami tra loro sono potenti e fragili al tempo stesso: il pittore ha in mente solo l’arte, il regista prova a portare la bambina negli USA, per aiutare la sorella a guarire dalla sua perdita, ma il viaggio si rivela, come nel migliore dei mondi possibili, pieno di insidie, di strade interrotte e di desideri mostruosi, che, perché venuti alla luce, esigono di essere soddisfatti.

In un intrecciarsi di storie fisiche, legate al sangue, quello usato nelle performance e nel mondo del BDSM, e quello mestruale, semplice e potente della bambina sopravvissuta, scopriamo una piccola parte di un mondo rinchiuso dietro i confini delle cose che sembrano non essere mai accadute, eppure le foto e le immagini ci dicono che da qualche parte, allo stesso orario in cui facciamo colazione, persone vengono fatte saltare in aria e di loro non rimane nemmeno il nome.

La scrittrice rischia di perdere le parole, rinchiusa nel senso di colpa per quella bambina che non ha potuto respirare, composta tra le sue braccia trepidanti con le labbra dischiuse. Per questo, in una sorta di espiazione riparatoria, diventa essenziale salvare la vita della piccola sopravvissuta al genocidio, agli stupri e alla perdita della famiglia.

Quello che accade è che per tornare indietro bisogna fare patti con i demoni, e decidere cosa si è disposti a perdere. Quello che accade è quanto dista l’arte dalla vita vera, di quanto sangue abbiamo bisogno per ricordare che l’assoluta causalità ci permette di vivere in un posto dove non rischiamo di avere un arto amputato per un passo sbagliato. Il dolore, una volta uscito, non può rientrare se non attraverso forme capillari di assorbimento, fino a quando, sul confine con la dissoluzione, non ci sentiamo connessi al dolore che abbiamo dentro, per il semplice fatto di stare al mondo.

Lidia Yuknavitch ancora una volta, dopo La Cronologia dell’Acqua, ci lascia parole che ci costringono a rivedere il senso della lettura, non un luogo rassicurante, ma un territorio che ci fa perdere, prima di tornare a casa.

 

Sono stata madre la prima volta per nove mesi, solo nove, poi madre di una bambina morta. Ora sono madre di un figlio. Bambino strano e vivo.

Sono stata depressa a otto anni per un anno, ma avevo solo la sensazione di stare sott’acqua, che era familiare per me, la nuotatrice. Sono stata depressa a undici anni per due anni, poi ancora a diciotto per un altro anno. Poi sono tornata sotto depressione e sono riemersa violentemente. Ricorrentemente.

Chiunque io ami è un artista. Nessuno di noi sa cosa significhi. Oh sì, facciamo finta. Alcuni vincono premi e si tengono stranamente sopra la superficie delle cose; altri sgobbano, trasformando la fatica in un romanzo integerrimo. Alcuni hanno lavori, cattedre o famiglia; alcuni sono ricchi, altri saltano sul treno delle sovvenzioni; alcuni sono senzatetto o nomadi, altri tossicodipendenti in via di guarigione o ricaduta.

Non aspiriamo tutti a una vita in cui l’arte conti qualcosa?

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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