Da boschi neri, una volta

Un autore che non conosca i meccanismi della narrativa naviga nella nebbia, ma a orientarlo, nel profondo, è qualcosa di più importante.

La lista delle cose da ricordare quando si scrive una storia, da tenere presenti, è infinita. Dalla messa in scena, al punto di vista, alla motivazione dei personaggi e così via. Scrivere senza conoscere i meccanismi della narrativa è un po’ come ritrovarsi in un banco di nebbia e aver perso il senso del sud, del nord, dell’est e dell’ovest.
Io credo, però, che ci sia qualcosa che viene prima di ogni altra: uno scrittore non si deve mai dimenticare di sé e da dove viene. Anche quando scrive un horror o un romanzo di fantascienza. Persino quando scrive un saggio. Se non lo ricorda, quello che scriverà suonerà falso, o meglio sembrerà che l’abbia scritto qualcun altro.
È come se ci facessimo scippare, strappare via dalle mani la cosa più preziosa che abbiamo: noi stessi. Ricordarci da dove veniamo, sia in termini di luogo che di anima, significa anche proteggerci, difenderci.
Ma c’è qualcuno che l’ha detto, anche nella ‘tormenta’, molto meglio di me.

 

Io, Bertolt Brecht, vengo dai boschi neri,
Mia madre dentro le città mi portò
quand’ero ancora nel suo ventre. E il freddo dei boschi
fino a che morirò sarà dentro di me.

Nelle città d’asfalto sono di casa. Da sempre
preparato con tutti i sacramenti.
Di giornali. E di tabacco. E di cògnac.
Diffidente e pigro e contento alla fine.

Sono cortese con la gente. Mi metto
in testa un cappello duro, come usano.
Dico: sono animali che hanno un odore speciale.
E dico: non fa nulla, son come loro anch’io.

La mattina, alle volte, nelle mie sedie a dondolo vuote
qualche donna ci faccio accomodare.
E senza affanno le contemplo e dico:
in me qui avete uno, che non ci potete contare.

Quando fa buio raduno uomini intorno a me.
Gli uni con gli altri ci si chiama «gentleman».
Mettono i piedi, quelli, sui miei tavoli.
E dicono: «andrà meglio». E io non chiedo: «quando?»

Quando fa giorno, nel grigio pisciano gli abeti
e i parassiti loro, gli uccelli, cominciano a gridare.
Nella città, a quell’ora, vuoto il bicchiere, butto
la cicca del mio sigaro e dormo in inquietudine.

A noi, stirpe svagata,  furono sede
case immaginate indistruttibili
(così costruimmo i lunghi edifici dell’isola di Manhattan
e le antenne sottili che animano l’Atlantico).

Di queste città resterà solo chi le traversa ora: il vento!
La casa colui che banchetta fa beato: ché egli la vuota.
Noi lo sappiamo, siamo di passaggio.
Dopo di noi: nulla di notevole.

In mezzo ai terremoti che dovranno venire, speriamo
di non lasciar che il «Virginia» mi si spenga per troppa amarezza
io, Bertolt Brecht, sbattuto nelle città d’asfalto
da boschi neri, dentro mia madre, una volta.

Bertolt Brecht, Del povero B. B., 1921

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Flavia Ganzenua

Ex allieva di Paolo Restuccia. Ha lavorato come dialoghista televisiva (Rai e Mediaset), ha scritto racconti per antologie collettive (Mondadori), riviste e blog (Nazione Indiana). Ha pubblicato la raccolta "La conta delle lentiggini" (CaratteriMobili, 2013). Conduce da anni laboratori di scrittura.

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