Freddo: Capitolo 7 – Droni

Una volta qualcuno gli ha detto: "Tu, che sei sempre in guerra". Adesso che c'è in una maniera nuova, si chiede se sia mai stato davvero dentro quello che fa.

Nei capitoli precedenti:

 

Settimo capitolo – Droni

Un giorno, una persona concluse un ragionamento parlando di me così: “Tu, che sei sempre in guerra”.
Provai a fingere di non capire e come sempre riuscii ad affogare il pensiero di cosa intendesse. Decisi di dare peso ad altro, scegliendo di ignorare. Eppure, è un po’ come avvicinare un orecchio a una conchiglia per sentire l’eco del mare, basta allontanare la conchiglia e le parole risuonano silenziose nel profondo della nostra coscienza giù nel vuoto, apparentemente risolte. Puoi girarti, certo, puoi distruggere o costruirci su, ma quello è. La verità è spietata, si insinua, come la guerra.
Il problema costante delle guerre moderne è che si camuffano in un’apparente normalità. La vita va avanti costellata di sirene, mentre, intrisa nelle coscienze del popolo ucraino, si consuma una quotidianità oppressiva e spaventosa. I blackout sono all’ordine del giorno. Nessuno si è preoccupato della luce che, nel motel, se ne è andata. È tornata poco dopo.
Guardo Ludovico.
– È normale, qui, – dice, – tu qui la guerra la vivi così, assenze e ritorni. Acqua luce gas cibo a intermittenza. “La vita intermittente”.
Su quest’ultima frase sorride. Io la trovo perfetta, ma lui non lo sa. Per me, più che per l’Ucraina: la vita a intermittenza, esattamente la mia. – Dormiamo?
– Direi di sì, spegniamo. Tanto qua va e viene.
 L’indomani, dentro il grosso camper, preparo caffè e distribuisco merendine. L’umore è buono anche perché non pensavamo di dormire comodi in un motel, in una situazione normale, immersi nella guerra.
La direzione è Uman, un piccolo paese nel mezzo dell’Ucraina. Mi giro e mi muovo sul sedile posteriore, fuori dal finestrino il cielo è sereno, il celeste è l’unico colore tutto intorno. Per il resto sono grossi edifici grigi, alberi spogli, steppa, macchine anni ’90, di uomini ce ne sono pochi in giro.
– Guardate ragazzi, su a sinistra, guardate, un drone! Ragazzi, un drone. Mortacci loro.
Provo a guardare fuori ma non vedo niente, Ludovico di nuovo indica fuori dal finestrino.
– È sicuro un drone, forse russo non so, fin qui è strano però.
Vedo muoversi molto in alto in cielo un’ombra nera.
– Mmmh, aspetta Ludo, è molto in alto però. – Interviene Giulio.
– Ah eccolo, lo vedo,– dico guardando Ludovico, – Ma i droni girano per controllare?
– Quelli ucraini sì, quelli russi sai che fanno?
– Distruggono generatori e simili?
– Sì. Mirano obiettivi specifici, non le persone, ma obiettivi logistici definiti, come desalinizzatori dell’acqua di mare per renderla potabile, o generatori di corrente come dici tu. Li mirano, sparano e bum.
– Immaginavo, speriamo non becchino il generatore che doniamo noi.
– Dopo che saltano in aria, – continua Ludovico sfiorandosi la barba disordianta, – chilometri interi di territorio restano senza’acqua, o al buio.
– Ma qui è strano però, siamo lontani dal fronte e non c’è niente. – Aggiunge Giulio.
In effetti c’è poco o niente per chilometri.
– Forse era un drone di ricognizione ucraino. Quelli nel loro territorio servono per controllare assembramenti di auto. Tutto il grande gruppo è diviso in sottogruppi con massimo quattro mezzi, altrimenti ci fermerebbero in ogni regione per controlli di sicurezza. Piuttosto, Andrea, hai tolto la geolocalizzazione?
– Sì, assurda ’sta cosa.
 – Eh, ma con la geolocalizzazione rischiamo i droni ci valutino come obiettivo sensibile.
– E?
– E sparano.
– Pure quelli ucraini?
– Eh, il rischio c’è.
Abbasso lo sguardo.
– È andato comunque. – Giulio ha la faccia appiccicata al finestrino. Preme il cappello sulla testa e fa scivolare la visiera davanti agli occhi. Prendo in mano il telefono, metto su un po’ di musica e spingo le cuffie dentro le orecchie.
– Mi fate da hotspot?
– Sì, è aperto il mio.
Ringrazio Ludovico che ha la scheda ucraina.
L’Ucraina non è in Europa, quindi il roaming costa tanto. Sono con un gruppo di persone europeiste, Giulio più di tutti. Ora lui è salito sul camper con noi, ha guidato l’altro mezzo fino a ieri e voleva riposarsi, il camper è decisamente più comodo del van.
La strada scorre, io guardo gli enormi edifici vuoti figli dell’ex Unione Sovietica, casermoni grandi e grigi, tristi.
Poi, una manciata di colore. Un grosso benzinaio con un piccolo bar accanto alle pompe. Sembra un benzinaio americano, o inglese. È colorato e luminoso. Accostiamo per mettere benzina. Il lato divertente del camper è che se ti alzi in piedi prima che sia fermo, cadi. Frenando, due dei passeggeri già in piedi, Anna e Raffaella, finiscono una sopra all’altra. Io, che mi alzo al volo prima che il camper sia parcheggiato, finisco sotto le scalette e la porta mi si apre. Se fossimo stati un autostrada sarei rotolato sull’asfalto. Invece qui ridono tutti. Mi ripendo, mi alzo.
– Era per aprirvi le porte, signore belle. – Lo dico sorridendo e ammiccando alle ragazze.
– Andrea Fassi. Niente galanteria patriarcale qui dentro. Niente mansplaining, niente di niente.
Tossisco. Sto per chiedere, conscio di fare una figura orribile, cosa sia il mansplaining. Ma Giulio mi salva.
– Si va a mangiar schifezze all’autogrill?
 – Andiamo. – Grido. E tutti, per mia fortuna, ci seguono.
Giulio è entusiasta. Insegna in un liceo in periferia a ragazzi complessi che vengono da famiglie complesse e per loro la vita sarebbe ancor più complessa senza persone come Giulio.
“I miei cuccioli”, li chiama quando ne parla con gli occhi tipo stelle luminose. Ha una cadenza toscana che gli restituisce uno stile “ficòso”, per dirlo alla sua. Insegna ai ragazzi la storia e la cultura, ragazzi del liceo in un’età delicata. Lo sa fare, ci metto la mano sul fuoco.
Insegnare è complesso. Io che tengo corsi amatoriali e ho mollato quelli professionali di gelateria, io che ho modo di parlare, che so modulare la voce, che so tenere l’attenzione di più persone, so di non saper insegnare a fare il gelato. È una questione di empatia e io ce l’ho in misura ridotta, anche se camuffo bene il mio limite.
Giulio mi guarda.
– Ti garbano?
Ha in mano dei pescetti essiccati e del bacon fritto, tutto in bustine industriali.
– Dio se mi garbano! Io amo ’ste schifezze.
Ci appoggiamo alla porta dell’autogrill mentre una puzza di pesce insostenibile sale dalle nostre bocche e si imprime sulla pelle. Penso che se i ricordi potessero scegliere uno dei cinque sensi per torturarti, sceglierebbero l’olfatto.
– Perché sei qui?
Mi guarda, si pulisce le dita unte, ha gli occhi vivi, limpidi, brillano. Io non so mai che rispondere a questa domanda. Mai.
– Credo sia giusto essere qui. Sarebbe potuto accadere anche a noi.
Mi gratto la poca barba che inizia a crescermi sulle guance. Il distributore di benzina è moderno, pulito. All’interno una ragazza ucraina mi sorride, è dietro la cassa incastonata come una sagoma in un dipinto pieno di pacchetti di patatine e sigarette, ricambio lo sguardo e mi gratto il naso.
– E poi, penso voi tutti facciate un lavoro meraviglioso. Per un attimo ho pensato di specializzarmi in questo. Dopo la triennale, avrei voluto seguire il percorso di cooperazione e sviluppo, ma poi sai, sono partito, la gelateria. E scienze politiche non faceva per me.
Sospiro.
Vorrei che questi miei compagni di viaggio vedessero lati diversi di me, lati che mi appartengono ma che silenzio per la vita che faccio.
– Per “lavoro meraviglioso” intendi l’insegnante?
In effetti il suo lavoro quello è, il volontariato è il resto del tempo.
– No no, dico questo, – indico la zona intorno, – l’essere qui.
– Lo si fa, lo fai, ci sta. Se vuoi che qualcosa cambi fai il tuo, fai il possibile, lo fai col sorriso e senza paura ma devi guardare dentro ciò che vuoi. Poi quando hai paura ti ricordi che lo fai perché fai parte di una comunità, mica perché ti aspetti che qualcuno lo rifarebbe per te; è a senso unico fare del bene.
Minchia. Sento il suo pensiero solidificarsi dentro la mia gola, diventa una monetina che piomba dentro di me percorrendo miglia di vuoto. Mi chiedo: “E io ci guardo, dentro quello che faccio?”
– Si riparte, su su su su.
Silvia fa cenno di muoversi con le mani, come se sculacciasse dei piccoli alunni.
Io addento bacon fritto e sardine fritte affumicate, sorrido a Giulio che mi sorride a sua volta. Salgo sul camper e decido di guidare.
– Pulisciti le mani, eh. – Un coro si alza dal retro del camper.
Sulla superstrada vengo sorpassato da grossi camion militari, chiusi e blindati. Mi sembrano veloci rispetto al peso. Spingo sull’acceleratore, il sole ormai è alto. La guerra è intorno e inizio a sentirla. Guardo lo specchietto retrovisore. I miei occhi riflessi dalla luce del sole sono di un verde scuro e lucente, mostruosi.
Devo essermi perso da qualche parte, in un momento preciso, senza distogliere lo sguardo cerco la monetina solidificata da qualche parte, ma è troppo giù, chissà dove.
La strada si ripete per chilometri, steppa e grossi edifici ci accompagnano verso Uman, dove entriamo al tramonto.
Io continuo a guidare, sento sgonfiarsi l’agitazione che mi ha accompagnato per tutta l’ultima parte del tragitto, si riforma un morbido cuscino tra la mia gola e il vuoto. “Tu che sei sempre in guerra”.
Mi sento come quella signora al motel del confine dove abbiamo dormito. Una bambola di porcellana inespressiva che non capisce niente di ciò che le accade intorno, che la guerra la immobilizza ma lei non la comprende, non ha gli strumenti.
Mentre parcheggio il camper, la notte ha preso il posto del giorno. Spengo il motore, prendo il telefono, una moltitudine di notifiche. Le scorro mentre gli altri scendono dal mezzo, siamo nel parcheggio dell’hotel dove sosteremo per la notte nella periferia di Uman.
Io resto seduto. Penso che la paura mi distingua per la sensazione perenne del tempo che stringe tipo morsa, e mi lascia con questa urgenza di movimento, di tensione, che mi affatica anche solo nel rimanere un attimo fermo in silenzio. Mi guardo di nuovo riflesso nello specchietto e per la prima volta la intravedo, la guerra, come se intravedessi il riflesso della monetina giù nel vuoto.
Provo a non distogliere lo sguardo, come l’istinto di sopravvivenza sempre mi indica; ma poi sento la prima, vera sirena suonare per un attacco di droni. È un suono che arriva dal centro della città, un suono lento e costante che copre tutto il cielo e riempie le strade.

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Andrea Fassi

Pronipote del fondatore del Palazzo del Freddo, Andrea rappresenta la quinta generazione della famiglia Fassi. Si laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali coltivando l’interesse per la scrittura. Prima di seguire la passione di famiglia, gira il mondo ricoprendo diversi ruoli nel settore della ristorazione ed entrando in contatto con culture lontane. Cresciuto con il gelato nel sangue, ama applicare le sue esperienze di viaggiatore alla produzione di gusti rari e sperimentali che propone durante showcooking e corsi al Palazzo del Freddo. Ritorna al passato dando spazio al valore dell’intuito invece dei rigidi schemi matematici in cui spesso oggi è racchiuso il mondo del gelato. Combina la passione per il laboratorio con il controllo di gestione: è l’unico responsabile del Palazzo del Freddo in qualità di Amministratore Delegato e segue la produzione dei locali esteri in franchising dell’azienda. In costante aggiornamento, ha conseguito il Master del Sole 24 Ore in Food and Beverage Management. La passione per la lettura e la scrittura lo porta alla fondazione della Scuola di scrittura Genius nel 2019 insieme a Paolo Restuccia, Lucia Pappalardo, Luigi Annibaldi e ad altri editor e scrittori. Premiato al concorso “Bukowsky” per il racconto “La macchina del giovane Saleri”, riceve il primo premio al concorso “Esquilino” per il racconto “Osso di Seppia” e due menzioni speciali nei rispettivi concorsi “Premio città di Latina” e “Concorso Mario Berrino”. Il suo racconto “Quando smette di piovere”, dedicato alla compagna, viene scelto tra i migliori racconti al concorso “Michelangelo Buonarroti”. Ogni martedì segue la sua rubrica per la scuola Genius in cui propone racconti brevi, pagine scelte sui sensi e aneddoti dietro le materie prime di tutto il mondo. Per la testata “Il cielo Sopra Esquilino” segue la rubrica “Esquisito” e ha collaborato con il sito web “La cucina italiana” scrivendo di gelato. Docente Genius di scrittura sensoriale, organizza con gli altri insegnanti “Il gusto per le storie”, cena evento di degustazione di gelato in cui le portate si ispirano a libri e film.

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