8 Maggio 1983   

"Alla scuola privata dove andavo quell’anno (ero un po’ instabile negli studi), tra i tanti avevo conosciuto Marco, un tipo simpatico, matto, e soprattutto romanista".

Ero sicuro di averli ancora in un angolo dell’armadio, li trovai senza buttare troppe cose all’aria. Avevo appena appreso la notizia della morte del Barone e la prima cosa che mi era venuta in mente erano quei jeans con quel vistoso rammendo a L che avevo conservato per tanti anni a ricordo di una delle più belle giornate mai vissute da tifoso della Roma.
Abitavo a La Spezia all’epoca, in una città divisa quasi equamente tra rossoneri, nerazzurri e bianconeri, con qualche sparuta rappresentanza di altre fedi. Da due anni che ci vivevo non avevo ancora conosciuto nessuno che tifasse Roma come me.
Nell’ultimo anno avevo fatto nuove amicizie e si era formato un gruppetto ormai affiatato, eravamo in sei, tre ragazzi e tre ragazze, con gli inevitabili intrecci sentimentali che mai andavano a sistemarsi nella giusta maniera. Eravamo molto uniti, solidali, presenti l’uno con l’altro e idealisti come si è a 18-19 anni, quando ancora si crede che l’amore esista, che l’amicizia sia eterna e che si possa vivere solo di quello. Ci volevamo bene, eravamo una cosa sola, un meccanismo che non si metteva in moto se ne mancava una parte, con una sola eccezione: la domenica pomeriggio. Lì il mondo girava e l’amore era messo a dura prova, i miei amici infatti, tutti e cinque, due ragazzi e tre ragazze, erano Juventini.
La Roma quell’anno stava vincendo lo scudetto, le magie di Falcão e i gol di Pruzzo stavano per compiere il miracolo, la supercorazzata juventina dei tanti freschi campioni del mondo, con in più i due fuoriclasse Boniek e Platini, che era strafavorita alla vigilia, stava infatti per arrendersi all’eleganza della magica Roma modellata dal grande maestro Nils Liedholm, detto il Barone. Ma stavo vivendo una gioia intima, senza condivisione, mai un abbraccio con nessuno dopo un goal, mai un brindisi dopo una vittoria, e se ci mettete pure che la ragazza di cui ero perso era la più accanita tifosa juventina del gruppo e dovevo quindi pure stare attento a non urtare la sua suscettibilità, il quadro era completo.
La fine del campionato si stava avvicinando, i tre goal rifilati in cinque minuti dal Torino alla Juve, che ribaltarono il risultato nel derby, ci consegnarono di fatto lo scudetto, e ora si trattava di arrivare fino in fondo senza problemi. Le poche giornate che mancavano erano il conto alla rovescia per festeggiare e io mi domandavo come e con chi l’avrei fatto. Monica era una ragazza fantastica ma se anche un giorno avessi fatto breccia nel suo cuore credo che mai sarebbe stata felice per me se di mezzo c’era la sua Juve, Cristiano, poi, era un estremista, e gli altri, seppure non troppo fanatici, non avevano tanto spirito sportivo per festeggiare un evento che faceva felice solo me. A La Spezia poi non ci sarebbero certo stati caroselli a cui unirsi, anzi, a girare con una sciarpa giallorossa al collo avrei anche potuto rischiare qualcosa.
“Ma sì, chissenefrega, mi chiuderò in camera mia, ruberò una bottiglia di cognac a mio padre (juventino), mi ubriacherò e piangerò di gioia da solo, gli altri si impicchino!” Se ci penso bene forse quella fu la prima volta che cominciai a dubitare dell’inconfutabilità di certi ideali.

Ma il destino, che nel corso della mia vita spesso mi ha fatto beffe, quella volta mi fu benevolo: alla terz’ultima di campionato infatti la Roma rifilò due gol all’Avellino e la Juve pareggiò 3-3 in casa con l’Inter e la Roma avrebbe potuto festeggiare lo scudetto con una giornata di anticipo, ma soprattutto lo avrebbe fatto a poco più di cento Chilometri da me: in calendario infatti, c’era Genoa-Roma. Alla magica bastava un pareggio per essere campione, ai grifoni altrettanto per salvarsi dalla retrocessione, era una festa annunciata, di quelle a cui non si poteva mancare.
Alla scuola privata dove andavo quell’anno (ero un po’ instabile negli studi), tra i tanti avevo conosciuto Marco, un tipo simpatico, matto, e soprattutto romanista. Il primo dei pochissimi che avrei conosciuto negli anni successivi. Bastarono poche parole e la decisione fu presa, non sapevamo se avremmo vissuto abbastanza per avere un’altra occasione simile. Ai biglietti ci avrebbe pensato lui, suo fratello viveva a Roma, un colpo di telefono ed era fatta. I giorni successivi ero nervoso e impaziente come un bambino che aspetta Natale, Marco veniva a scuola un giorno sì e tre no, e il giovedì ancora non si era visto, mi stavo convincendo che quella testa matta m’aveva tirato una bella fregatura, che forse manco ce l’aveva un fratello e che dei biglietti della partita se ne era già scordato, con tutte le canne che si fumava. Pensavo che mi sarebbe davvero toccato solo il cognac in camera mia, quando all’uscita da scuola vidi Marco che mi aspettava sorridente. Quando gli fui davanti mi sventolò il biglietto sotto il naso. “Ci vediamo domenica in stazione, alle 10” mi disse mentre gli davo i soldi del biglietto, e si dileguò.
Domenica mattina alle 10 ero in stazione, non avevo dormito molto la notte, ero eccitato, impaziente, e ancor più lo fui quando, saliti sul treno, ci trovammo immersi nel giallorosso e nei cori dei tanti tifosi che erano partiti da Roma per lo storico appuntamento. Arrivammo a Genova verso le 12,30. Percorremmo il tetro sottopassaggio della stazione Brignole e cominciammo la lunga passeggiata verso lo stadio Marassi. Avvicinandoci si cominciò a respirare l’aria dell’evento, mi misi al collo la sciarpetta che avevo comprato due anni prima all’Olimpico a Roma, in occasione di una semifinale di Coppa Italia con la Juve (Coppa che poi vincemmo), era molto bella, di raso con strisce che sfumavano dal rosso al giallo passando per varie tonalità di arancio. Per strada cominciammo a incontrare ragazzi del Genoa che volevano scambiare le sciarpe, sembrava quasi scortese rifiutare, ma io la partita la volevo vedere col giallorosso al collo. Alla fine ne avremmo riparlato.
Marco invece era uno spasso, non riusciva a dire di no ai ragazzi che gli proponevano lo scambio, così, subito dopo, si avvicinava a gruppetti di romani e biascicando un improbabile “zenese” spacciandosi per un tifoso locale, si rimetteva in un amen un’altra sciarpa giallorosa al collo dopo avergli mollato quella genoana; avrà cambiato una decina di sciarpe prima di entrare allo stadio con i colori giusti. Quando entrammo al Marassi lo stadio era già pieno, soprattutto le due gradinate, lo scambio di cori era già cominciato da un po’ e le sciarpate che le due curve si mostravano erano spettacolari, merito anche dell’architettura all’inglese del vecchio stadio genovese. L’atmosfera era surreale, l’aria era di festa, i tifosi di una squadra incitavano l’altra e tutti insieme auguravano sventure alla Juve, che da lì a poco avrebbe dovuto incontrare l’Amburgo in finale di Coppa dei Campioni…
Essendo entrati tra gli ultimi eravamo nella parte bassa della gradinata, pochissimi metri dietro la porta; se avessi detto qualcosa sulla mamma del portiere probabilmente mi avrebbe sentito benissimo. Prima della partita dall’alto si srotolò un enorme bandierone giallorosso che coprì tutta la gradinata, i genoani di fronte dovevano avere una visione suggestiva, pensai, mentre riuscivo anche a preoccuparmi che qualche sigaretta accesa non facesse sì che lo spettacolo diventasse ancora più fantasmagorico.
Poi arrivò il momento: le squadre sbucarono dal tunnel degli spogliatoi con i giocatori in fila indiana, gli occhi di 40mila persone brillavano lucidi alla vista dei loro eroi, anche quelli dei tanti strafatti che erano stati portati dentro in spalla e che ancora non avevano dato segni di presenza, si aprirono e le facce presero colore. In quel momento capii cosa stava succedendo, fino ad allora mi ero sentito come un turista straniero a Roma ammirante stupito il Colosseo e che poteva solo immaginare la storia che aveva vissuto quel monumento. Ma ora si stavano materializzando i gladiatori e la folla urlante della quale ero parte la storia l’avrebbe vissuta veramente. La pelle cominciava a starmi stretta. La partita la vissi in uno stato di trance, ho delle immagini ovattate: ricordo il goal di Pruzzo, di testa, bellissimo, sotto la gradinata genoana. Subito dopo, il pareggio di Fiorini per i rossoblu, proprio sotto il mio naso, tutto nel primo tempo. Nel secondo tempo praticamente non si giocò, fu una melina da parte di tutte e due le squadre, ma ormai più nessuno desiderava una partita, si guardava solo l’orologio. A venti minuti dalla fine un sacco di gente cominciò a passarmi avanti e ad avvicinarsi all’alta inferriata che ci separava dal campo, “Ndò vanno questi?” pensai. Mi faccio spesso domande stupide, quella fu una delle più evidenti. Sembravano tanti granchi che risalivano la spiaggia, in pochi minuti centinaia di persone avevano scavalcato ed erano ai bordi del campo, che ora non era più delimitato dalle strisce di gesso, ma da una muraglia umana. Guardai dietro di me, ormai in gradinata c’era meno gente che in campo, mi girai e vidi Marco aggrappato all’inferriata che saliva rapidamente e in un amen anche lui fu in campo. Appena atterrato si girò e mi fece un gesto come dire: “Sei ancora là?” Già ero ancora lì, il fatto, lo confesso, era che quell’inferriata mi faceva paura, era altissima e aveva degli spuntoni che non erano affatto invitanti, e io non avevo mai avuto una gran passione per le arrampicate, manco da ragazzino. Guardai ancora per qualche istante tutta quella gente che scavalcava, e quando mi resi conto che in campo c’erano arrivati donne e bambini, ubriachi e strafatti, magri e grassi, alti e bassi, pensai che se non avessi scavalcato quella maledetta inferriata non me lo sarei perdonato per tutta la vita; mi misi bene a tracolla la piccola borsa militare che avevo e mi avventurai. Ero stato in palestra tutto l’anno, ero in forma come non mai, il problema non era certo arrivare in cima, ma erano quegli spuntoni, che ora avevo davanti agli occhi, che non mi lasciavano tranquillo, e poi io non sono uno di quelli a cui piace staccare i piedi da terra. Ma non potevo tornare indietro, mi feci coraggio, mi issai sulle braccia tese e feci passare una gamba come i ginnasti del cavallo con maniglie, e rapidamente feci passare pure l’altra. Sentii distintamente il rumore della stoffa che si strappava, ma non me ne poteva fregare di meno, ce l’avevo fatta. Mi lasciai andare da lassù e volai in campo. Istintivamente mi toccai dietro, e la mano mi si infilò quasi intera in un bello sbrego appena sotto la tasca posteriore destra; pochi centimetri più in là e quello scudetto mi sarebbe costato caro…
A bordo campo ormai si aspettava solo il fischio dell’arbitro, io avevo le gambe che mi tremavano e trattenevo a stento le lacrime, ricordo che pensavo che mi mancavano i miei amici, sarebbe stato bello essere insieme, ero in mezzo a migliaia di persone tutte in festa ma non avrei abbracciato nessuno a cui volevo bene e che mi voleva bene, purtroppo nessuno è perfetto e loro erano della Juve.
Al fischio finale invademmo il campo chiudendoci come una bocca, ingoiando i giocatori. Ricordo Vierchowod che grazie alla sua velocità sfrecciò verso gli spogliatoi con ancora qualcosa addosso, Chierico invece mi passò davanti con solo gli slip, Pruzzo che, solito orso, spintonava chi gli si avvicinava, nell’inutile tentativo di uscire dal campo coi baffi curati, Ancelotti, esausto, che non opponeva più resistenza a chi lo prendeva e lo lanciava per aria come un neonato, Falcão anche lui issato e sballottato, con la maglia dalla quale venivano strappati brandelli per souvenir, ci provai anche io, ma per pochi centimetri non riuscii ad afferrarne un lembo. Ma il più festeggiato era lui, il Barone, l’uomo che aveva costruito con pazienza quella squadra, che aveva regalato una gioia che la maggior parte di quelle persone non aveva mai provato e che per tutta una vita si era chiesta che sapore avesse. Rideva Nils, mentre galleggiava su quel mare di gente che lo stava venerando e ringraziando, rideva come se avesse fatto uno scherzo, un bello scherzo organizzato col suo grande amico Dino Viola, con il quale ora ci starà ridendo su.
Stringendo quei vecchi jeans, ripensai a quell’indimenticabile giornata, a quel grande uomo, e a quella gioia e, mentre passavo il dito sul grosso rammendo a L, mi commossi, e non perché non avrei mai più indossato dei jeans di quella taglia.

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Andrea Bocchia

Nasce a Oderzo (TV) nel 1963. Frequentatore assiduo di corsi di scrittura dal 2005, è autore di nove racconti e oltre cento articoli, prevalentemente di taglio umoristico su argomenti sportivi, pubblicati online. Del 2005 è il romanzo d’esordio “Ferite profonde forse guaribili" (Alter Ego). Nel 2021 è tra gli autori della raccolta di racconti “A Roma- San Giovanni. Storie quotidiane di un quartiere millenario” (Roma per sempre).

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