Voglio parlarvi oggi della forma-saggio, attraverso i saggi personali sulla boxe, di una grande e prolifica narratrice americana, Joyce Carol Oates, un libro uscito qualche anno fa, da una casa editrice 66thand2nd dal nome poco pronunciabile.
“Non mi va tanto di dirlo, ma è cosi: mi piace molto di più quando arriva il dolore” – confessò una volta il peso medio Frank «the Animal» Fletcher in un’intervista. Ecco, in questa spontanea ed estemporanea dichiarazione di un pugile mediamente famoso, c’è forse distillato il più profondo senso della boxe, che la rende diversa da tutti gli altri sport, ammesso e non concesso che il termine sport possa semanticamente racchiuderla e definirla. Joyce Carole Oates, grande scrittrice americana, dicevo, e curiosamente per una donna, grande esperta di boxe, ritiene di no, che la boxe non si possa definire sport, e tantomeno gioco (come il football, il basket, il tennis ecc.) per via dello spirito autodistruttivo che la caratterizza e del “dialogo con la morte” che instaura ogni pugile quando sale sul ring. Tutto questo lo leggiamo nel prezioso volume Sulla boxe, editore 66THAND2ND, che raccoglie i saggi di On boxing (1985), con l’aggiunta del saggio Il più crudele degli sport e di alcuni ritratti memorabili di campioni: Tyson, Muhammad Ali, Jack Johnson e Joe Louis Vs Max Schmeling.
La boxe è certamente uno sport in crisi. Una crisi che la parabola esistenziale di Cassius Clay sembra incarnare alla perfezione: dai trionfi degli anni ’60 alle sue battaglie sui “diritti civili” degli afroamericani culminanti col clamoroso rifiuto di partire per il Vietnam, dagli epici match contro Frazier e Foreman negli anni ’70 al tardivo ritorno sul ring a 39 anni contro Berbick e Holmes, fino all’insorgenza del morbo di Parkinson probabilmente favorita proprio da quell’improvvido ritorno fuori tempo massimo. La carriera di Cassius Clay, dunque, come punto più alto raggiunto dalla noble art in termini di bellezza del gesto atletico, popolarità, implicazioni storiche e culturali; quasi un meraviglioso, struggente “canto del cigno” che ne anticipa la fine.
Ma la boxe agonizza, ormai da tempo, a causa delle combine, degli arbitraggi discutibili, dei verdetti manipolati – o forse proprio perché il suo mito – arcaico, tragico, virile, crudele, primitivo – si è “appannato” e non riesce più a sintonizzarsi con la nostra civiltà ipercivilizzata e ipertecnologica dove dolore e morte vengono sistematicamente rimossi o comunque anestetizzati? Questa è la questione cruciale attorno alla quale ruotano i pezzi storico-filosofici-antropologici della Oates. Forse perché l’umanità oggi vuole dimenticare da dove realmente proviene, quell’infanzia omicida della razza, che lo “spazio mitico” del ring evoca senza ambiguità. Quello spazio nel quale le leggi delle nazioni non valgono, l’etica civile è temporaneamente cancellata, dove si ha facoltà di uccidere. Quello spazio, insomma, che è immagine dell’aggressività collettiva dell’essere umano, della sua “storica e perdurante follia”. I pugili sono uomini feriti dentro – per ragioni psicologiche, sociali ecc. – che scaricano la loro rabbia, il loro odio verso il mondo sul ring.
Quando la Oates da ragazzina veniva portata dal padre agli incontri di boxe più cruenti, le capitava di chiedergli: “Ma come fanno a sopportare tutto quel dolore?” E il padre provava a tranquillizzarla con una risposta non priva di verità: “Perché i pugili non sentono il dolore come lo sentiamo noi”. Jack La Motta, per esempio, affermava nella sua autobiografia “Toro scatenato”, da cui Scorsese ha tratto l’omonimo capolavoro, forse il film più bel film di sempre sulla boxe, che lui faceva di tutto per essere colpito, allo scopo di alleviare il senso di colpa, “in una sorta di baratto dostoevskiano – spiega mirabilmente la scrittrice – fra benessere fisico e pace dello spirito”. Qualsiasi boxeur ricerca attivamente sul ring ciò che le altre creature di solito rifuggono, e cioè il dolore, la sofferenza, la perdita, l’umiliazione, il caos. Chi sceglie di fare il pugile è spesso una creatura antisociale e finanche psicotica. Come Tyson, la cui bruta aggressività, i cui comportamenti criminali, lo portarono nel riformatorio per irrecuperabili di Tryon già a 12 anni e che si salvò, benché solo temporaneamente, dal carcere grazie al fiuto dell’anziano Joe D’Amato, ch’era stato il mitico allenatore di Floyd Patterson e José Torres, il quale seppe subito riconoscere il suo straordinario talento pugilistico portandolo a conquistare giovanissimo, ad appena 20 anni, il titolo dei pesi massimi.
Per esercizio vi ordiniamo di comprare questo libro. Se volete, poi provate a farne una breve lettura-recensione, e a mandarcela. Ma compratelo comunque, è un bell’oggetto da avere nella propria biblioteca.
Collana Attese, con foto in bianco e nero di uno scontro memorabile fra Max Schmeling e Joe Louis, Yankee Stadium, 19 giugno 1936, in copertina e controcopertina. E costa solo 17 euro.
Alla prossima. E vedete di farli questi benedetti esercizi, non stiamo qui a vendere coriandoli! O noccioline! O panini con la porchetta!