Alessandra Fagioli: “Per me i luoghi sono tanto importanti quanto i corpi”

Intervista all'autrice di un giallo dalla narrazione asciutta, severa e incalzante

Tra i 62 libri che sono stati proposti dagli Amici della domenica per il Premio Strega 2021, c’era anche quello di Alessandra Fagioli, Scacco all’isola (Robin 2021), pubblicato nella collana “I luoghi del delitto” e ambientato in parte all’isola d’Elba, luogo dove il delitto sembrerebbe una possibilità rara e che invece si presta bene a fare da teatro per questa storia. Paolo Ferruzzi nel presentarlo al premio ha scritto che si trattava di “una narrazione asciutta, severa, incalzante, più generosa con i luoghi che non con le persone” e davvero nel leggerlo si comprende quanto l’autrice si sia dedicata a evocare e a far vivere nella mente di chi legge le ambientazioni della vicenda narrata. Cosa questa che, se fatta senza abilità e senza studio, rischia sempre di apparire noiosa e sciatta, mentre Fagioli è riuscita a dare una personalità ai luoghi che narra, descritti mentre si sviluppa la trama del romanzo, con diversi omicidi e un finale sorprendente, come è naturale che sia, trattandosi di un giallo. La protagonista è un commissario, Anna Tesei, alle prese con una situazione famigliare che definire difficile è un eufemismo (un marito paraplegico, una figlia tossica e un figlio che fa il bullo), ma che trova un confronto vitale con Emma Lamon, un’amica scrittrice di gialli, che è sopravvissuta a un naufragio e ne porta i segni. A colpirmi è stato anche il fatto che io ho conosciuto Alessandra Fagioli quando entrambi studiavamo antropologia culturale con Ida Magli. Da antropologi a scrittori di storie gialle e noir, il passo sembra molto lungo, ma a pensarci bene non è poi così strano passare dall’osservazione dei popoli all’analisi dei singoli individui che reagiscono a un episodio violento esploso nella loro vita. Ogni antropologia in fondo è anche un’inchiesta, e il mistero fa parte dell’esistenza umana più di quanto si possa pensare. E quindi ecco che è arrivato il momento di fare una chiacchierata con Fagioli sul suo romanzo.


Mi piace molto l’idea che un’isola possa diventare, come scrivi, “molto più tentacolare di una città, molto più pericolosa di un quartiere sordido, molto più intrigante di un paesaggio montano”, tu hai vissuto da vicino i misteri dell’Isola d’Elba?

Con l’isola d’Elba ho un legame ancestrale, lì affondano le mie radici, vi ho sempre trascorso lunghi periodi dalla nascita e posso dire di conoscerla sasso a sasso. Non vi sono nata solo perché mia madre aveva l’ostetrica a Roma e ad agosto è tornata in città per partorirmi. Crescere in una casa a picco sul mare, che era la ragione di vita di mio padre, ha condizionato anche le mie scelte, tanto da essere l’unica della famiglia a esservi restata, attaccata come una patella allo scoglio. Così ho maturato l’idea di immortalare alcuni suoi scenari incredibili rendendoli teatro del crimine. Ovvero, come dico nella dedica rivolta proprio all’isola, ambientare delitti in luoghi fascinosi come intimo atto d’amore. Perché credo nulla più di un assassinio possa rendere indimenticabile un territorio.

Fino a pochi anni fa i poliziotti e i detective erano inevitabilmente uomini, a parte forse Miss Marple e la Signora in giallo (che pare quasi una semplice copia “all’americana”), oggi sembra quasi prevalere l’immagine opposta, e cioè che siano le donne le migliori a indagare – almeno in letteratura – tu che ne pensi?

Credo che le figure femminili nel ruolo di poliziotti e di detective siano state adottate da quando si è cominciato a scandagliare più a fondo nell’animo umano e nel carattere del personaggio, trovando nuove sfumature di approccio anche alle indagini. Tuttavia la mia scelta di un commissario donna, e se si vuole del suo alter ego complementare altrettanto donna, non riposa su una questione di genere ma sul desiderio di dare a due personaggi femminili una statura che di solito è di appannaggio esclusivamente maschile. Nel senso che le mie protagoniste non sono eroine e tanto meno vittime, come tante figure femminili, ma sono due donne tremende, maledette, come in genere solo gli uomini sanno essere. Mi sembrava appunto maturo che le donne potessero essere altrettanto inquietanti.

Nella breve biografia che accompagna il tuo libro c’è scritto che le tue passioni sono il mare e Shakespeare. Cominciamo dal mare. Sapresti dirci cosa te lo rende così caro?

Innanzi tutto l’imprinting. A trenta giorni sono stata piazzata su una terrazza a strapiombo da cui si vedevano solo mare e cielo. Poi ogni estate della mia vita non ho visto altro. Inoltre un’isola come l’Elba, così “perfetta” nelle sue dimensioni come dico nella presentazione del luogo del delitto, mi ha stimolato tutte le escursioni possibili in cui il mare lo si poteva esperire da infiniti punti di vista, così da essere una presenza avvolgente anche dentro i boschi e in cima alle vette. Infine ho sempre amato nuotare e navigare. Due attività, il nuoto e la vela, che mi hanno “polarizzata” sul mare, facendomi trascurare, anche dal punto di vista sportivo, altri paesaggi, pure a me molto cari, e condannandomi a una tale appartenenza a questo elemento da sentirmi bene solo tra i pesci.

Shakespeare, poi. Secondo te, è un accompagnatore perfetto per chi vuole scrivere qualunque tipo di storie, anche gialli o thriller?

Per me conoscere Shakespeare significa conoscere l’universo. Harold Bloom diceva che Shakespeare aveva inventato l’umano, ovvero la natura sottesa alle diverse tipologie di personaggi governati da grandi passioni, da farli diventare dei canoni che poi hanno influenzato tutta la produzione a seguire. Per cui le sue opere eternamente contemporanee non possono che essere fonte di idee, intrecci, personaggi, passioni, generi. Ho talmente amato Shakespeare che ormai a me piacciono solo le tragedie in cui muoiono tutti e che purtroppo nessuno scrive più e tanto meno gira, forse a eccezione solo dei fratelli D’Innocenzo nel cinema.

In questo scenario così antico, direi apparentemente senza tempo, si inseriscono i reati informatici, i computer, gli hacker. Secondo te convivono bene?

Nel mio romanzo ci sono sei delitti, eseguiti tutti con modalità differenti in base alle professioni delle vittime, che rimandano a sei possibili assassini e a sei plausibili moventi. In questa eterogeneità di casi, naturalmente con le loro costanti interne, ho cercato di declinare diverse personalità intorno al loro lavoro, che mi ha ispirato appunto anche le tipologie di omicidio. Per cui ho trovato naturale far convivere in uno stesso intreccio il ricatto informatico o la vendetta scientifica con la rivalità professionale o l’errore clinico. Sono tutti tratti che rispecchiano esistenze diverse, eppure molto complementari.


Nel tuo romanzo ci sono due donne che – potremmo dire – “lavorano” insieme. Che cosa pensi oggi dell’amicizia femminile?

Penso sia il giusto riscatto da tanta letteratura sull’amicizia maschile che ha governato una vastissima produzione intorno alla complicità tra uomini. Tuttavia sono persuasa che la forza di un’amicizia riposi sempre su una sottile tensione di odio/amore, ovvero di complicità conflittuale o di alleanza antagonista, per usare degli ossimori. Questo è senz’altro vero per l’amicizia maschile, soprattutto quella letteraria, assai meno per quella femminile che ancora subisce un retaggio di solidarietà di genere, vedi la saga di Elena Ferrante, da cui invece ritengo dovrebbe emanciparsi. Infatti tra le mie due protagoniste c’è un rapporto di grande stima, ma anche di intima sfida, dato che sono molto competitive e come dicevo complementari. Tanto che ho voluto giocare anche sui loro nomi, Emma e Anna, brevi, simili, palindromi o quasi, facilmente confondibili. Proprio perché nella loro strutturale diversità potrebbero essere interscambiabili.


Che rapporto hai, come autrice, con i mondi che rappresenti, gli ambienti, i luoghi? Cerchi di conoscerli prima di descriverli nella scrittura, oppure alcuni li immagini soltanto?

Per me i luoghi sono tanto importanti quanto i corpi, perché sono essi stessi dei personaggi. E più di ogni altro è stato Pasolini a incarnare in tutta la sua opera questo felice binomio di corpi e luoghi, come chiave di lettura della realtà. Fino al mio ultimo romanzo ho sempre creduto che bisognava parlare solo di luoghi che si conoscono bene. Infatti oltre all’Elba ho inserito sei città italiane, tutte piccole provincie, come luoghi di origine delle vittime dove la commissaria si reca per indagare, che naturalmente conosco molto bene. Però poi sono andata oltre e scrivendo un seguito di questa storia, che si svolge dieci anni dopo con le stesse protagoniste, ho sviluppato un doppio intreccio, perché si tratta di un giallo nel giallo, ambientato in alcune città europee che in parte conosco e in parte no. Per scoprire alla fine di essere riuscita a rendere più efficaci delle scene in luoghi che dovevo immaginare e che non mi vincolavano in base a ricordi o esperienze.


Qual è il tuo percorso di scrittura, parti dalla trama, dai delitti o dai personaggi?

In genere ho sempre privilegiato storie costruite intorno a personaggi che potevano diventare addirittura mondi. Credo si possa prescindere anche da un’ambientazione precisa, in termini di tempo e di luogo, che non ci debba per forza essere una trama con delle azioni eclatanti, ma senza personaggi non si può scrivere alcunché. Eppure proprio sperimentando il genere thriller, che riposa soprattutto sulla costruzione di un intreccio, mi sono sempre più appassionata alla struttura della narrazione, tanto da farla diventare la vera protagonista di Scacco all’isola e del seguito che sto finendo. Così la mia vera passione ora sono diventati l’intreccio, la fabula, il congegno con cui è scritto un romanzo, che offrono infinite possibilità di stesure e interpretazioni, come insegnano per me grandissimi maestri, quali Queneau, Perec, Calvino e Manganelli. La mia sperimentazione si sta orientando sempre più in questa direzione.

In che modo le tue altre attività professionali si conciliano con il lavoro di scrittura narrativa?

In tutte le attività di ricerca, di critica, di didattica che ho svolto ho avuto la fortuna che la scrittura ne divenisse l’oggetto principale. Anche perché credo non ci sia nulla che si possa insegnare meglio di quello che si pratica. Così la scrittura, non solo narrativa ma anche drammaturgica e cinematografica, è diventata il fulcro della mia attività professionale. Intorno vi orbitano altre competenze e naturalmente, come satelliti sempre più numerosi, i miei romanzi.

Una delle tue protagoniste, Emma, che fa la scrittrice, a un certo punto dice: “Ho sempre scritto, come ogni vero scrittore, per essere letta”. C’è un lettore ideale che vorresti nel tuo pubblico?

Il mio lettore ideale è quello che mi mette in crisi. Che mi dice cose a cui non avevo pensato. Che mi evidenzia gli aspetti più critici. Che interpreta oltre le mie stesse intenzioni. Per me scrivere per essere letti significa questo: esporsi a giudizi, critiche, interpretazioni estremamente vitali perché ti fanno capire davvero quello cha hai scritto. Senza un pubblico io non avrei potuto continuare a scrivere. I pareri dei lettori hanno influenzato la mia scrittura, il ritorno su ogni libro mi ha maturato per scrivere il successivo. Uno scrittore senza lettori è come un chimico senza reagenti, non saprà mai se il suo esperimento è riuscito.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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