Questa volta la nostra intervista della domenica non è rivolta a un narratore ma a una donna che scrive poesie, è impegnata nella lotta politica e civile di questo paese, si trova in prima fila nel riflettere sui tanti e profondi squilibri di un sistema che ha prodotto diseguaglianze e alimentato mafie e comportamenti mafiosi. Sto parlando di Ilaria Grasso, che ha dato alle stampe un libro di poesie, Pentax K1000 (edizioni Ensemble) che mi sembra decisamente lontano da certa idea di poesia contemporanea, che trovo spesso capace soprattutto di sognanti metafore, per quanto destrutturate, talvolta consolatorie. Pentax K1000 è una raccolta di versi dedicati a una grande fotografa, Letizia Battaglia (la prima donna europea a ricevere nel 1985, ex aequo con l’americana Donna Ferrato, il Premio Eugene Smith, a New York, solo per citare un evento che l’ha vista protagonista), una donna che ha documentato con i suoi scatti la Sicilia della mafia e dei quartieri popolari. E già questa scelta mi sembra un interessante tentativo di andare oltre il proprio ego da parte di Ilaria Grasso. Inoltre l’ho spesso vista battersi per le cause sociali più attuali del nostro tempo. E a questo punto inerpichiamoci in un’intervista capace di toccare mondi lontanissimi.
Fin dal titolo questa tua declinazione di parole e immagini viene riassunta in un modello di macchina fotografica, questo mi fa pensare che senza la tecnica le nostre visioni si perderebbero. Che ne dici?
Il titolo della raccolta rimanda al modello di macchina fotografica che Letizia Battaglia ha maggiormente usato. Con la nascita del modello K1000, l’azienda Pentax, nel 1976, realizza un prodotto che, con il miglior rapporto qualità-prezzo per l’epoca, consentì ai più di avere uno strumento per fare fotografia. Siamo agli albori – anche in fotografia – del rapporto uomo-macchina che qui può essere definito “accordo interspecifico” tra l’essere umano e organi sensoriali artificiali come direbbe Ernst Junger. Certo l’immagine può essere evocata attraverso i ricordi o l’immaginazione ma in una fotografia coesistono due aspetti: il primo è rappresentato da un’immagine prodotta indipendentemente dai sensi umani e il secondo testimonia lo sguardo di chi fa lo scatto e di chi è ritratto e al contempo interagisce con chi guarda la fotografia. Ed è proprio in questo preciso istante che assistiamo alla genesi dello sguardo. In ragione dell’esigenza di questo che subentra la questione del fare fotografia secondo coscienza, ciò che Letizia Battaglia ha sempre fatto. Uno sguardo si forma secondo il proprio vissuto, le proprie esperienze, quanto si è letto, le mostre alle quali si è assistito, i rapporti che siamo soliti avere. Battaglia ha ritratto le bambine perché in lei c’era un certo dato vissuto di bambina e la povertà e la disperazione e la paura ma anche la lotta contro le mafie perché nella sua Palermo dei tempi degli anni di Piombo e della Trattativa Stato-Mafia era quello il pane quotidiano della sua attività di fotoreporter al giornale L’ORA sotto la direzione di Nisticò. Ma ritorniamo alla riflessione che stavamo facendo. L’occhio è senz’altro l’organo di senso più democratico. Guarda e si fa guardare e queste operazioni tramite la fotografia sono fissate nel tempo. Il tempo dell’istante in cui si cattura l’immagine e il tempo potenzialmente infinito che corrisponde a quello dell’oggetto fotografia che è sempre lì e può essere visto tutte le volte che vogliamo. L’argomento è vasto e complesso e questa domanda, rimanendo sul tempo, di tempo più ampio avrebbe bisogno per essere approfondito. Spero comunque di aver dato spunti di riflessione o comunque potremmo parlarne assieme in altri luoghi.
Cosa hai trovato nelle fotografie di Letizia Battaglia, nella sua vita, che ti ha spinto a scrivere per lei?
Sono un’inguaribile romantica e ostinata sognatrice ma quando sono venuta a conoscenza dell’esistenza di Letizia Battaglia ho trovato nuova linfa e in me si è rinvigorito il sogno di un mondo giusto e sono diventata ancora più coraggiosa. In Battaglia ho trovato una Maestra come Donna e come Intellettuale. E ho trovato anche una persona autentica e dolcissima, a volte apparentemente brusca ma estremamente generosa, di una generosità semplice e fattiva. Ho fatto poesia per lei ma anche con lei. Le poesie di PENTAX K1000 rappresentano anche un dialogo con lei. Non la conosco di persona e la poesia mi ha consentito di “parlare” con lei e con quanto lei rappresenta per affrontare temi come quello delle mafie perché vengono trattati troppo semplicisticamente dalla cronaca “solo” come fenomeni di criminalità. Gli atti criminali sono solo la “superficie” del fenomeno mafioso che è prima di tutto un fenomeno culturale, politico, psicologico e sociale. Ecco, andare a fondo, quello sì che mi interessa, ed è quello che ho provato a fare con PENTAX K1000. Vedi, non è che son diminuiti i morti ammazzati per le strade e le mafie sono sparite, anzi. Le mafie sono dappertutto, se solo siamo preparati culturalmente e psicologicamente a riconoscerle per combatterle. In ogni modo un piccolo indizio per riconoscerle c’è. Basta vedere dove ci sono enormi quantità di soldi – lì qualcosa la trovi! Le logiche e le dinamiche mafiose e quelle del capitalismo e del neoliberismo hanno lo stesso obiettivo: fare profitto. E per farlo impongono la forma di ordine a loro più conveniente con la violenza e la paura e lo fanno “col silenziatore” e cioè in quel quieto vivere che sono in tanti ad abitare spesso in ragione di un bisogno che spesso è indotto proprio per rimarcare chi comanda. In altri casi esisti solo se sei mafioso perché sei abituato ad esserlo e non trovi altro modo di esistere se non attraverso quella struttura identitaria. Il clientelismo è, ahimè, pratica quotidiana e dovremmo essere noi cittadini a rifiutarlo con orgoglio e coraggio. Tutti amiamo la sincerità ma quando poi sei sincero gli altri provano un senso di fastidio. Ecco, utilizzare come cartina al tornasole “il fastidio”, può lavorare bene nella consapevolezza individuale e collettiva.
La tua poesia, così come le immagini delle fotografie di Letizia Battaglia passa in rassegna le immagini delle stragi di mafia, ma anche adesso la trasformazione in anonimi colletti bianchi. Si possono ancora raccontare i mafiosi ora che sono dei burocrati?
Con le stragi di mafia che, come dice Leoluca Orlando, “hanno costretto i sordi a sentire, i muti a parlare e i ciechi a vedere”, emerge il delicato tema della Trattativa Stato Mafia che ha avviato una lunga stagione processuale con il cosiddetto MAXIPROCESSO (solo la motivazione della sentenza di primo grado consta di 7000 pagine divise in 37 tomi). Al di là della mole di documentazione, il MAXIPROCESSO ha un grande valore soprattutto per ciò che ha storicamente rappresentato. Si è trattato infatti del processo che è stato in grado di dimostrare l’esistenza di una associazione mafiosa chiamata Cosa Nostra, unitaria e verticistica, “governata” da una commissione o “cupola” come organismo di direzione e controllo. Da quel momento in poi la mafia siciliana ha cessato di essere soltanto una categoria storica per acquisire un preciso significato giuridico. I figli della vecchia generazione di boss mafiosi hanno studiato nelle migliori scuole e i loro colletti sono diventati bianchi e sembrano puliti, pulitissimi. Seduti nelle poltrone dei loro uffici, con le loro carte, i loro timbri e le loro firme decisive. Stanno lì, sempre lì al loro posto. Si mimetizzano tra colleghi perbene e lavoratori integerrimi. E nel silenzio delle cronache e delle stanze, muovono la macchina che fa camminare comuni, provincie, regioni, stati e continenti al di là dei loro stessi confini. Le mafie non sono più una fattispecie geografica ma un modo preciso di governare. Forse è possibile fotografarne gli effetti. Il fotoreporter alla Letizia Battaglia non può più esistere perché i giornali prendono da poche agenzie scatti distratti retribuendo poco o addirittura non retribuendo affatto i fotografi ma anche dando loro poco tempo e pochi mezzi per individuare e fotografare il particolare necessario a fare storia. Mi domando spesso quale sarebbe l’immagine dell’analfabetismo di ritorno oppure gli effetti delle delocalizzazioni. Abbiamo o sono sufficientemente diffuse le immagini del modo di produrre in Africa o in Cina o in India o in America o in Russia? Ho da poco letto Nati con la camicia…di plastica (Aboca, 2021) di Antonio Ragusa, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma. Nel libro viene esposta la ricerca da lui condotta e che ha dimostrato la presenza di microplastiche nella placenta e nei feti umani. Sarebbe molto utile che tutti vedessero ciò che Ragusa ha visto con i suoi ricercatori. Sono certa che ci renderebbe cittadini più sensibili al tema dell’inquinamento e chissà che non nascerebbero serie riflessioni di “sistema” anche per casi come la Terra dei Fuochi. Sappiamo tutti abbastanza bene che lì non c’è “solo” un problema di inquinamento ma anche di comportamenti e atteggiamenti mafiosi diffusi, spesso inconsapevoli. Un altro bel lavoro che si potrebbe fare potrebbe essere un reportage sui senzatetto perché ci farebbe fare qualche considerazione in più sul nostro modo di fare profitto ma anche sull’abuso dei licenziamenti a fronte dell’assenza di visioni a lungo termine. Ma torniamo alla burocrazia. Le immagini dei lavoratori della burocrazia sono molto stereotipate perché la burocrazia è una forma di potere (Weber docet) e al suo interno la discrezionalità è molto molto ridotta. Insomma, la burocrazia non è proprio democraticissima. Fotografare gente che fa al PC attività ripetitive per ore e ore, il loro straniamento di fronte a un buffering che carica da oltre due minuti o gli stati di ansia legati a obiettivi sempre meno raggiungibili o generati da mobbing e/o bossing, potrebbero essere delle rappresentazioni possibili. Ma è possibile entrare liberamente nei luoghi di lavoro? Il fotografo sarebbe davvero libero di scattare ciò che fa davvero male?
Quali potrebbero in essere gli effetti rappresentabili delle delocalizzazioni? Approfitto di questo spazio per mettermi a disposizione dei fotografi che leggeranno per realizzare progetti che siano grado di rappresentare ciò che spesso non viene rappresentato. Poesia e Fotografia sono arti sorelle che non devono perdere quella dimensione dialogica necessaria a quell’autenticità di percepito/sognato che molto si avvicina a quell’universalità cui l’arte tende.
Definirei questa tua raccolta poesia civile. Credi che abbia ancora senso in questa nostra epoca usare i versi per raccontare la cronaca?
Questo solo il tempo potrà dirlo. È il tempo a fare della cronaca la storia. Il presente è incerto e il futuro lo è ancora di più. Ora, di fronte a questa domanda, mi vengono in mente il titolo di una raccolta di poesie e alcuni versi di una poesia che amo moltissimo. La raccolta è di Patrizia Cavalli e si chiama LE MIE POESIE NON CAMBIERANNO IL MONDO. I versi sono quelli di Franco Fortini:
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
E mi vengono in mente perché mi mettono a verifica ogni volta moderando il mio ego e quello della poesia che non è l’unica forma di arte ma che spesso lo dimentica per eccesso di ego. La poesia non è l’unica arte o la migliore, Questo, secondo me, è onesto dirlo.
A un certo punto scrivi: “Abbiamo perso e siamo stanchi”. Di chi parli?
Parlo di chi si dice nichilista. I nichilisti sono per me romantici delusi. Spesso i nichilisti preferiscono atteggiamenti e comportamenti distruttivi perché hanno paura. Non bisogna allontanarli e, cosa più importante, bisogna parlare con loro e provare a convincerli nello stesso tempo di piccoli sogni realizzati o da realizzare assieme. Non è un’operazione semplice e dagli effetti immediati ma è necessario farlo perché fa parte della rivoluzione che auspico. Molti pensano che la rivoluzione non sia un pranzo di gala ma se costruiamo muri o barricate stiamo lavorando culturalmente in maniera obsoleta. Dobbiamo essere empatici e teneri. Dobbiamo non giudicarli ma conoscere a fondo il loro percorso e trovare i blocchi emotivi che sono alla base delle loro paure e con grande pazienza provare a costruire una nuova morale, ragionare come intelligenza collettiva e costruire strumenti validi ed efficaci che portino avanti quella pedagogia del coraggio di cui sempre avremo bisogno per dare valore alle istituzioni e dignità agli esseri umani.
Ognuna di queste poesie s’intitola Scatto, per te la poesia è come una fotografia, cioè un’immagine che fotografa un momento?
Uno scatto vede, reagisce, denuncia, testimonia, sa essere memoria, pone l’osservatore in condizione di riconoscere e di riconoscersi. Ora sia in poesia, che in fotografia, lo scatto questo fa. Ed è il motivo per cui ogni poesia di Pentax K1000 l’ho denominata “Scatto”. Poesia e Fotografia sono arti sorelle che dialogano molto e a volte riescono persino a comprendersi nonostante abbiano un linguaggio differente. Se vedi il silenzio nella foto di Letizia Battaglia nella foto “La scala interna. Triplice omicidio a piazza Sant’Oliva”, se percepisci l’assenza di vento in un’opera di Donghi, se senti l’effetto del silenzio nello Scatto n°22 di PENTAX K1000 allora comprenderai quello di cui sto parlando. Insomma, riadattando un detto latino, Primum experiri deinde philosophari.
L’ultimo scatto si chiama Autoscatto e in quello scrivi: “Credo che il desiderio sia uno dei più grandi motori che muove il mondo”. Cos’è invece che lo frena?
Credo che a frenare il mondo siano le paure e le debolezze se affrontate da soli. Da agosto seguo attivamente il Collettivo di fabbrica dei Lavoratori della GKN di Campi Bisenzio. L’azienda è stata comprata dal Fondo inglese Melrose. I lavoratori GKN hanno occupato la fabbrica, hanno organizzato grandi mobilitazioni facendo convergere rivendicazioni e vertenze e fatto una proposta di legge sulle delocalizzazioni nata di fronte ai cancelli della fabbrica di Campi Bisenzio coinvolgendo i Giuristi Democratici in una assemblea aperta a tutti. Questa è una lotta nuova già dal lessico. Non usano la parola “rabbia” come benzina per distruggere ma per quel che è e cioè nutrire le autovetture (e i semiassi da loro prodotti) e farle andare avanti e far andare avanti il comparto automotive e non solo quello. Non pensano infatti al loro orticello e la loro lotta è una famiglia allargata che abbraccia le più disparate vertenze e situazioni di precarietà lavorativa. Questa lotta nuova si domanda: cos’è la cosa in comune per la quale vogliamo lottare? Convergere è il Verbo che si fa Azione di lotta di operai, impiegati, capi reparto, addetti alle pulizie, carrellisti, finte partite IVA, lavoratori che hanno perso diritti e tutele a causa della cattiva gestione degli appalti, studenti, Fridays for Future, i precari di tutte le realtà lavorative, Non Una di Meno e altri movimenti che si occupano di diritti civili e umani. Una delle frasi più ricorrenti nelle piazze e nei cortei e nei comunicati è PORTATE TUTTE LE VOSTRE PAURE E DEBOLEZZE E SAREMO INVINCIBILI! Seguiteli su FB e sostenete la Cassa di Resistenza perché #siamotuttiGKN!
Pensi che un certo tipo di cultura mafiosa – oltre ad attraversare in lungo e in largo la società – si ritrovi ormai in modo inconsapevole dentro ognuno di noi?
In questo credo fortemente. Ne ho trovato conferma all’interno del libro LA RETE DEGLI INVISIBILI di Nicaso e Gratteri (a cui ho dedicato la raccolta). In questa raffinata analisi mi imbatto nel profilo psicologico dello ‘ndranghetista tratteggiato da Di Mizio che qui riporto fedelmente perché di facile comprensione ed è molto utile per comprendere quanto sia in noi radicato un certo modo di stare al mondo. Anche se moltissimi prendono le distanze dalle mafie ed è molto facile dire “sono contro le mafie”, in realtà ci sono tratti di mafiosità che possiamo con grande onestà riconoscere prima in noi stessi, nella nostra cultura e nel nostro agire – a qualsiasi livello, qualsiasi sia il nostro ruolo nel mondo e nelle più disparate posizioni lavorative. Ora vi riporto ciò di cui vi accennavo e vi sfido a riconoscere almeno uno degli elementi dentro di voi e dentro di noi.
Per Di Mizio «Lo ‘ndranghetista non cessa mai il suo ruolo>>, anzi tende a mostrare una serie di comportamenti quali la superbia, l’egocentrismo, la supponenza, l’eterocolpevolizzazione, lo sfruttamento, la fascinazione per l’assoggettamento, la manipolazione, il raggiro, l’emotività superficiale e finta, la mancanza di senso di colpa, l’assenza di rimorsi, la povertà di empatia, l’insensibilità, la freddezza emotiva, l’impavidità (nel senso deteriore del termine, cioè agire con sottovalutazione dei rischi e in spregio dell’eventuale reazione altrui), lo sprezzo del pericolo, la rischiosità, la noncuranza della riprovazione sociale, la neotenia (tendenza alla gioventù, minimizzare l’invecchiamento), la neofilia (nei soggetti più giovani), l’inosservanza delle norme sociali, l’immoralità sostanziale, paludata da un grande rispetto formale per tutto ciò che è tradizione (compreso, ad esempio, l’ossequio spesso ostentato per i clero, salvo eliminare all’occorrenza i “preti scomodi”).
Ecco se qualcosa abbiamo trovato in noi di questo profilo siamo sulla buona strada e sono certa che prima o poi i nostri percorsi si incroceranno. Sarà un percorso difficile, a volte ma non sempre in solitudine, ma pieno di giustizia, ma pieno di verità, amore, bene ma ancora di più sarà un percorso coraggioso che ci consentirà di vincere di molte paure. In definitiva sarà un percorso di libertà.
Scrivi: “L’anima delle vittime rimane viva”, sarà quell’anima a indicarci una via di riscatto, secondo te?
Non c’è nulla da riscattare o meglio “riscatto”, secondo me, non è la parola giusta. Il riscatto rimanda ai soldi dei parenti dei rapiti o a questioni bancarie. Si avvicina troppo al concetto di debito più legato al profitto che al bene comune. Tale bene è custodito da persone dotate di un’anima che sa abitare l’equanimità, la compassione, la pietà, la gentilezza amorevole, la tenerezza e la gioia compartecipe.
Ora vi racconto una cosa che ho vissuto. Ero alla manifestazione contro il G20 e quando siamo passati con il corteo vicino alle forze dell’ordine che presidiavano la manifestazione ho intravisto nella folla due mani che facevano il gesto della P38 in direzione dei poliziotti. Mi sono avvicinata. Erano due ventenni, vestiti con abiti vintage anni ’70. Uno dei due aveva un baffetto alla Bel Renè. Quando gli ho detto che dovevamo fare una lotta nuova e che l’estetica della violenza non ha portato bene (vedi le Brigate Rosse e il terrorismo nero), erano straniti e sbalorditi che qualcuno si fosse avvicinato a loro. Mi dicevano Ma come Potere Operaio? Le Lotte? Ed io A cosa hanno portato se siamo ancora qui? A cosa hanno portato se non a violenza su violenza? Poi gli dico Abbracciamoci! Mentre ci abbracciavamo gli chiedevo delle loro sensazioni durante l’abbraccio. E loro È intenso, non so spiegarlo… A quel punto gli faccio È più forte di una molotov? Loro Eh… Ci siamo abbracciati nuovamente tutti e tre assieme e saltavano dicendo: Eccola la nuova lotta! Che bello! Che bello! Che bello!
Spero che tornando a casa si siano domandati come portare la tenerezza nella lotta. Parlo di tenerezza perché la tenerezza è un sentimento trasversale che può essere provato in famiglia, in coppia, in amicizia e anche al lavoro. La tenerezza è un qualcosa che può agire e lavorare bene ma è troppo sottovalutata. Gli effetti sono sorprendenti, PRATICHIAMOLA!
Che cosa unisce il tuo impegno nelle questioni sociali, del lavoro e dei diritti, alla scrittura di versi? Ci sono due Ilarie o ce n’è una sola?
Ilaria è una e molteplice rispetto alle parti che la compongono perché è contemporaneamente centrata psicologicamente su sé stessa ma esiste anche in relazione a persone, fatti, movimenti, pensieri. C’è una parte di soggettiva del mio essere nel mondo ed è una e vive perché si rapporta, e una parte intimistica che si rapporta con la poesia ma ciò che mi muove sono sempre le questioni sociali, del lavoro e dei diritti. Non amo molto il concetto di identità perché troppo rigido e “lavora male”. Se pensassi solo alla mia identità non potrei avere la possibilità di avere quell’empatia necessaria per trovare con gli altri costantemente quella cosa in comune che genera intelligenza condivisa e collettiva. L’esperienza del Collettivo GKN, anche in questo è stata ed è continua fonte di apprendimento.
Foto di Andrea Annessi Mecci