Quando Sabina Moretti mi ha raccontato il tema della storia che stava scrivendo, sono rimasto qualche secondo a pensare tra me e me in quale genere potesse essere inserita. Non è che sono un fissato dei generi letterari, ma sapete com’è l’editoria, ha la mania delle classificazioni. E cos’era la storia che lei mi proponeva? Non una saga famigliare, non certo un giallo, non un fantasy, non una storia mainstream come si dice oggi, forse poteva essere considerata una trama di fantascienza. Ma invece che nel futuro era ambientata nel passato. Era un romanzo storico? Poteva sembrarlo, però si ambientava prima della storia come la conosciamo noi. Era la storia di formazione di una bambina preistorica, una piccola del neolitico addirittura. A questo punto toccherà al lettore inserire nella categoria che sceglierà Il tempo del tamburo, questo il titolo del romanzo appena pubblicato. Noi per ora ci facciamo raccontare qualcosa su questa storia di emancipazione e avventura dall’autrice, che ha già al suo attivo un altro romanzo e una raccolta di racconti usciti in libreria, mentre continua il suo lavoro artistico e didattico di violinista (insegna violino al Conservatorio “Licinio Refice” di Frosinone).
Hai scritto un romanzo ambientato nella preistoria, come mai hai scelto questa ambientazione non certo comune?
Amo l’archeologia e l’arte e ogni qualche anno mi piace leggere saggi di antropologia. Nel 2019 per aggiornarmi ho letto alcuni saggi di antropologia e questo romanzo è nato così, dalle immagini e pensieri che questi testi hanno suscitato nella mia mente. Sono partita da un’idea non definita, ho iniziato ad approfondire alcuni aspetti, ho scoperto il sito di Göbleki Tèpe in Turchia e ho letto il diario degli scavi dell’archeologo che lo ha portato alla luce. È stato un viaggio meraviglioso, mi sono persa in quelle pagine. A quel punto avevo la storia e ho iniziato a scrivere il primo brogliaccio. Sapevo che questa scelta poteva essere eccentrica e che era un argomento molto difficile da affrontare, ma non ho potuto resistere al desiderio di raccontare quello che la mia mente vedeva e le emozioni che mi suscitava.
La protagonista, Hay, è una bambina ma i suoi sono poteri da sciamano. Come nasce nella tua mente questa figura? È del tutto immaginaria oppure sei partita da qualche documentazione storica o antropologica?
Hay e Gnu li ho trovati una mattina seduti accanto a me. Forse li avevo cercati e loro si sono manifestati. Mi hanno detto il loro nome e mi hanno raccontato la loro storia. Hay non è una sciamana, ma sa sognare ed è in contatto con la natura. Hay rappresenta quella parte dell’uomo che è potenzialmente in collegamento attivo con l’energia della natura. Sarà Gnu a educarla, perché riconosce questa sua sensibilità. Nel racconto ho proposto una possibile ricostruzione della vita di tribù che vivono nei luoghi dove l’antropologia e l’archeologia ci narrano sia nata la rivoluzione neolitica che ha dato i natali alla Storia. In sostanza ho dedotto le credenze e le possibili interazioni tra uomini e donne di quelle tribù da ciò che ho letto. Della preistoria sappiamo molto poco, non emerge nessuna individualità, dal mondo antico abbiamo ereditato dei miti, ma nel mio racconto siamo ancor prima dei miti, quando l’umanità viveva di caccia e di raccolta. Tutto è partito da questi due semplici principi.
Gnu, lo sciamano, ha verso di lei una tenerezza che non ci immaginiamo nella feroce ricostruzione della vita nella preistoria. Pensi che l’uomo sia sempre stato capace di dolcezze in qualunque epoca?
Penso che l’essere umano sia sempre stato capace di tenerezza, ma che certo l’ha espressa secondo i modi che erano propri della cultura del suo tempo e del carattere di ciascuno individuo. Anche gli animali non domesticati sanno cosa sia la tenerezza verso i cuccioli. Gnu scopre la tenerezza, anche lui vive un percorso di crescita. Inizialmente è interessato solo a tenere Hay in vita, poi inizia a porsi delle domande alle quali non sa rispondere e vive nuovi sentimenti.
Sei una musicista, insegni violino al conservatorio, in che modo la musica dialoga nella tua mente con le parole che scrivi?
Questa è una domanda molto difficile e forse non so rispondere. Un critico esterno potrebbe avere più distacco per poter trovare le fila di questo rapporto tra parole e musica. Posso rispondere in modo indefinito, ma ciascuno può trarre le sue conclusioni leggendo i miei testi.
Non so se c’è un rapporto tra le parole che scrivo e la musica, la mia esperienza è al contrario: io quando suono racconto storie cercando il significato dei fraseggi musicali. Quando studio le cerco, magari cammino o faccio altro e intanto canto la musica e la lascio vivere dentro di me. Accade anche con i miei studenti quando non capiscono il senso delle frasi musicali, dei dialoghi tra le parti o tra gli eventi che si svolgono in una pagina di musica. Allora per ogni singola frase musicale, semifrase, inciso melodico o ritmico e per la struttura del brano invento immagini, storie e personaggi, a volte mi muovo e danzo mentre suonano per far comprendere il senso del ritmo che devono realizzare. È probabile che quando scrivo accada un meccanismo inverso del quale non sono consapevole.
Per suonare il violino occorre sviluppare una grande capacità di coordinazione tra pensiero e corpo che si costruisce attraverso lo sviluppo sinergico di una raffinata sensibilità del corpo e dell’immaginazione: perché tutto deve accadere in un solo attimo. In un susseguirsi ininterrotto di gestualità.
Inoltre, per diventare esecutori professionisti è necessario sviluppare alcune competenze: la disciplina, il saper riconoscere i propri limiti, l’allenamento a superare le difficoltà e una grande tenuta di concentrazione e di tensione emotiva. Nello scrivere queste competenze mi sono molto utili. Anche questo potrebbe essere un aspetto della musica nella mia scrittura.
In ultimo so di avere in prima stesura un problema con le virgole, ma sto migliorando. Deriva dai micro-respiri musicali, dagli incisi che si identificano quando analizzi e studi un brano di musica. Durante lo studio si sezionano piccole parti che poi verranno riunite in periodi più lunghi e che sfociano nella punteggiatura finale dell’esecuzione. Quando scrivo mi accade esattamente la stessa cosa.
Con i nomi dei personaggi e dei luoghi, hai praticamente inventato una nuova lingua, il che rende il romanzo quasi vicino a un classico racconto fantasy. Su cosa ti sei basata? Orecchio, istinto o documentazione?
I nomi dei personaggi sono di pura invenzione. Mi piace molto scoprire i nomi dei personaggi, spesso sono loro stessi a dirmi come si chiamano e non posso cambiarli. Credo dipenda da come si affacciano nella mia mente quando li incontro. Altre volte trovo i nomi pensando alla personalità del personaggio: buono, gentile, debole, aggressivo. Cerco parole che suonino indicando queste caratteristiche. Per esempio, Rhun (con l’h aspirata) è nato così. Doveva avere un nome ruvido, corto, semplice, ma con una prospettiva futura. O anche Liert, che è una donna timida e pavida.
Per quanto riguarda i luoghi de Il tempo del tamburo non c’è molto di inventato. Ho lavorato sui nomi antichi di luoghi noti. L’Ararat era chiamato Urartu, così come la lingua dei templi è Armeno tradotto da google in alfabeto latino. L’Armeno, certo secoli dopo gli eventi narrati, era la lingua che si parlava nella zona dell’Ararat, o meglio l’unica che ho potuto utilizzare che noi ancora oggi conosciamo. È stato un compromesso, una contaminazione storica. Avevo bisogno di mostrare che le lingue esistevano e si stavano evolvendo.
Alla fine Hay ha una consapevolezza di sé molto forte. Questa è una storia al femminile, femminista direi, no?
Sinceramente non lo so o almeno non sono partita da questo desiderio. Mi sono solo domandata come vivessero le donne a quel tempo. Infatti, descrivo parti, mestruazioni, la vita di ogni giorno. Hay assume la sua consapevolezza perché ha vissuto pericolosamente fin da piccola e ha un carattere che le ha permesso di resistere e di reagire. Femminista è credo sia una parola troppo forte. Mio desiderio era, e mi cito dalla IV di copertina, ‘Hay rappresenta uno dei possibili eventi che la tradizione storica narrata o documentata ha voluto dimenticare, ma della quale, leggendo tra le righe della mitologia e della storia, si possono trovare tracce concrete’. La domanda che mi sono posta è la seguente: se mito e tradizione narrano per esempio delle amazzoni, e siamo già in un’epoca storica, prima di loro ci saranno state altre donne che hanno fatto qualche cosa di cui non abbiamo traccia. Il mito non inventa un’amazzone dal nulla. Se nella storia c’è stata Cleopatra, altre prima di lei avranno fatto delle cose perché lei potesse diventare un giorno una regina/faraone.
È certo un racconto molto al femminile, perché volevo narrare anche come ‘le donne hanno, in un giorno remoto, partecipato alla rivoluzione neolitica e di come abbiano voluto e ottenuto dire ciò che pensavano e fare ciò che volevano’.
In questo senso posso aver lavorato in un’ottica femminista, ma solo perché volevo indagare come potesse essere la vita delle donne in quel tempo. L’antropologia ci dice che sono state le donne raccoglitrici a iniziare la domesticazione della natura e che sono state loro che, trasferendosi da una tribù all’altra per fare figli, hanno diffuso e amalgamato gli usi e i costumi, la cultura, dei piccoli gruppi tribali. Non ultima la figura della Grande Madre che è presente all’origine in ogni cultura antica. Ecco questo è stato il mio quadro di riferimento. Forse è femminista, non lo so.
C’è qualche autore che ti ha ispirato mentre scrivevi questa storia?
Si, Omero e la tragedia greca. Infatti, in un primo momento ho scritto con un linguaggio poco moderno, ma poi ho rielaborato la scrittura. Non è stato facile scrivere questo racconto perché ho dovuto togliere ogni parola o aggettivo che riportasse al metallo, che non esisteva, ma che è parte integrante del nostro vocabolario, ogni odore, che non fossero quelli naturali e semplici, ogni rumore, che non fossero quelli della natura, del legno e della pietra. Il vocabolario si semplifica e tutto è più essenziale.
Rimane il Tamburo, come suono del tempo che passa.
Secondo te un autore di narrativa ha il diritto di “reinventare” quelle parti della storia che non conosciamo direttamente attraverso documentazioni e racconti biografici?
Non so se ho ben compreso la domanda, ma non è quello che fanno gli scrittori di romanzi storici? I documenti lasciano traccia di avvenimenti, ma cosa accade tra un avvenimento e l’altro o come i personaggi vivono gli eventi sono materia di scrittura, ovvero di immaginazione.
Per quanto riguarda Il tempo del tamburo è certamente tutta un’invenzione dove ho cercato di raccontare e descrivere ciò che ci narrano gli studi antropologici su come possono essere andati gli accadimenti umani prima della storia. Per storia si intende il periodo che va dalle prime tracce di scrittura, dai primi documenti, le tavolette incise per catalogare i raccolti, gli animali da pascolo, insomma i beni di una comunità. Tutto ciò che l’archeologia, intesa in senso ampio e scientifico, scopre di precedente a questa documentazione storica è documentazione storica indiretta che gli antropologi interpretano per noi.
Su queste basi ho voluto raccontare, se vogliamo allora ‘reinventandolo’, un frammento di quel periodo preistorico. Forse è stato un peccato di presunzione, non ho trovato altri testi simili che certo ci saranno, ma che non conosco. Posso dire che ho scritto consapevole di questa possibile colpa e ho vissuto ore intere delle mie giornate spogliandomi di tutto il superfluo. È stato il mio modo di trovarmi con i personaggi nella loro storia. Ho imparato molto da loro.
Hai pubblicato romanzi e racconti, cosa ti piace di più scrivere?
Entrambi, non posso fare a meno di nessuna delle due possibilità. Fino ad ora stanno viaggiando in parallelo: mentre scrivo un romanzo lavoro anche sui racconti. Mi sembra che non ci sia nulla in comune tra i due percorsi, ma forse non è così. Mi accorgo che nei romanzi viaggio in ambienti più fantasiosi, mentre nei racconti guardo la realtà che ho intorno. Però ho l’impressione che qualche cosa stia cambiando.
Tra un romanzo e un racconto per me è diverso il modo di scrivere e di stare nelle vicende. Del romanzo amo la grande progettualità, i personaggi, poter scrivere di più, diluire le mie emozioni o tenerle a freno prima che esplodano. Nei racconti ho un argomento unico di cui narrare e mi richiede una concentrazione sintetica. Un poco come uno scatto fotografico rispetto a una pellicola cinematografica. Credo che sia una sorta di deformazione professionale. Un violinista sul suo leggio ha sempre un concerto e un brano di bravura. La differenza tra loro è la stessa che c’è tra un romanzo e un racconto.
Hai deciso di pubblicare quest’ultima opera fuori dai circuiti dell’editoria tradizionale, e quindi l’hai fatto via Amazon, anche se dopo un accurato lavoro di editing. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta?
Ho 61 anni, non cerco la fama, la mia professione l’ho fatta, sono cinquant’anni che sono una violinista e questo mi completa, ma vivo ancora la necessità di comunicare con le persone e forse ora che la professione va verso il naturale declino soddisfo questo desiderio con la scrittura.
Le due case editrici che hanno pubblicato i miei primi testi, alle quali sono molto grata, mi hanno confermata nella mia possibilità di scrittura. C’è un però molto importante per me. L’editoria in Italia pubblica essenzialmente autori stranieri e garantiti da buone vendite estere, autori italiani che abbiano una qualche forma di notorietà individuale -cantanti, politici, personalità pubbliche le più disparate, giornalisti, giudici, figli, mogli e parenti vari – o giovani trentenni che possano garantire una produzione futura. Io non rientro in nessuna di queste categorie e non ho il tempo della vita per attendere di essere scoperta e di lottare con attese ansiogene o firmare contratti capestro. Amo sentirmi libera e se devo impegnarmi da sola per fare pubblicità, perché le case editrici purtroppo in questo sono molto distratte, allora investo le mie energie su me stessa e non per una casa editrice non generosa nel ricambiare l’impegno e le mie spese.
Facendo questa scelta ho potuto per esempio creare una copertina originale che altrimenti non avrei avuto, visto che la maggior parte sono copertine che rielaborano immagini che si acquistano. Sono una musicista, ho un senso della creatività che esercito da sempre e questa operazione grafica non mi interessa. Come dicevo non cerco la fama, ma la possibilità di esprimermi e di condividere. Che è ciò che si fa quando si suona per un pubblico.
Amazon mi da questa possibilità, ma non escludo in futuro di poter collaborare con nuove case editrici. Dipenderà dalle condizioni.